di Francesco Martone

La notizia è di un mese fa, ma tuttora attuale visto il suo significato simbolico e i più recenti sviluppi alle Nazioni Unite, in particolare l'adozione - con l'astensione inaspettata degli Stati Uniti - di una Risoluzione che condanna Israele per gli insediamenti illegali in Cisgiordania e Gerusalemme Est, dando indicazione agli Stati membri di operare una netta distinzione tra Stato di Israele e territori occupati, e ribadendo l'obbligo da parte di Israele di rimuovere gli insediamenti creati dopo il marzo 2001.

La reazione durissima di Bibi Netanyahu va di pari passo con la determinazione con la quale il suo governo all'interno e all'esterno del paese sta cercando di mettere a tacere qualsiasi voce critica nei confronti di chi pacificamente denuncia le violazioni dei diritti umani, o di chi altrettanto pacificamente - incluse associazioni e intellettuali israeliani, o di fede o origine ebraica (basti pensare alla filosofa e sociologa Judith Butler) - esorta ad applicare misure di boicottaggio, disinvestimento o sanzioni.

Nello specifico si tratta della campagna Bds (Boycott, Disinvestments, Sanctions), il cui obiettivo è quello di aumentare la pressione sulle autorità israeliane per il rispetto della legalità internazionale.

Proprio la recente Risoluzione del Consiglio di Sicurezza rafforza le basi dell'iniziativa Bds, che lungi dall'essere mirata contro lo Stato d'Israele, al suo popolo o a chi professa fede ebraica, intende contribuire ad assicurare il rispetto del diritto internazionale e dei difensori dei diritti umani - anche israeliani - che criticano la politica di Israele, a maggior ragione in una situazione nella quale la soluzione dei "due Stati per due popoli" appare essere sempre più lontana.

A prescindere da cosa si pensi sull'efficacia o la legittimità di misure di boicottaggio (c'è un dibattito sempre aperto sulla loro efficacia per esempio, viziato senz'altro dalla forte influenza di lobby del settore privato), i recenti sviluppi in Israele e in alcuni paesi europei interrogano più in generale sulla portata e la centralità del diritto alla libera espressione, e alla libertà di associazione e organizzazione.

Tema centrale, questo, dell'appello sottoscritto da oltre 200 giuristi ed avvocati di 15 paesi (13 dei quali dall'Italia) e reso pubblico appunto un mese fa circa. I firmatari, pur non prendendo posizione a favore o contro la campagna Bds, riaffermano l'urgenza di tutelare il diritto di promuovere i diritti del popolo palestinese in base al diritto internazionale con strumenti di pressione pacifica quali la campagna Bds, riconoscendo la stessa come legittimo esercizio della libertà di espressione.

"Gli Stati che vietano il Bds stanno minando questo diritto umano fondamentale (alla libertà di espressione) e minacciano la credibilità dei diritti umani, esentando un determinato Stato dall'essere destinatario di misure pacifiche volte a ottenerne il rispetto del diritto internazionale", si legge nella lettera. L'appello dei giuristi segue le prese di posizione di vari paesi dell'Unione Europea quali Olanda, Svezia e Irlanda, di associazioni per i diritti umani, e della stessa Vicepresidente della Commissione Europea.

In una risposta data a un'interrogazione al Parlamento Europeo nel settembre scorso, Federica Mogherini affermò testualmente - seppur condannando ogni forma di boicottaggio - che "l'Unione Europea è determinata a proteggere la libertà di espressione e associazione in linea con la Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea che è applicabile sul territorio di tutti gli Stati membri, includendo anche le azioni della campagna Bds svolte su questo territorio".

Va ricordato che la Ue ha adottato misure di etichettatura dei prodotti provenienti dalle colonie al fine di informare debitamente i consumatori in Europa, misura anch'essa fortemente stigmatizzata da Tel Aviv. Questa dichiarazione stride con quanto previsto da un disegno di legge presentato un anno e mezzo fa circa in Senato, volto a rendere punibile con il carcere chi direttamente o indirettamente sostiene la campagna Bds.

Di fatto s'intenderebbe emendare la Legge 654 del 1975 di ratifica della Convenzione internazionale contro le forme di discriminazione razziale, poi modificato dalla Legge Mancino del 1993, prevedendo misure di reclusione per chi incita a commettere, o commette, atti di discriminazione verso persone fisiche o giuridiche in ragione dell'appartenenza non solo a gruppi nazionali, etnici, razziali o religiosi (come previsto dalla Legge Mancino), ma anche territoriali o statuali, che possono comportare "l'intralcio dell'esercizio di qualsiasi attività economica".

Punibili con la reclusione anche coloro che parteciperebbero o fornirebbero assistenza a chi promuove tali atti, o chi dirige o coordina tali movimenti di pressione. Che questa legge sia indirizzata chiaramente a chi in Italia promuove o sostiene la campagna Bds risulta evidente dalla relazione introduttiva al disegno di legge che bolla come "antisemita" e discriminatoria la campagna, incurante delle preoccupazioni sollevate da più parti circa il rischio di pregiudicare, come poi affermato nettamente dall'Alto Commissario Ue Mogherini, e di recente nella lettera dei 200 avvocati e giuristi, il diritto alla libertà di espressione e associazione.

La proposta "italiana" segue le iniziative contro la campagna Bds e i suoi attivisti in altri paesi membri quali la Francia o l'Inghilterra. In Inghilterra di recente sono state adottate misure legislative contro le iniziative Bds, che possono risultare in una "criminalizzazione" delle associazioni che la sostengono, mentre in altri paesi le lobby esercitano forti pressioni su amministrazioni locali, e su banche che ospitano conti di associazioni affiliate alla campagna Bds (in Spagna un'associazione "Acom" si dedica a fare lobby sulle amministrazioni locali).

Di recente il quotidiano israeliano Haaretz ha denunciato la connivenza tra alcune fondazioni ebraiche inglesi ed i ministri degli Esteri e degli Affari strategici di Israele proprio allo scopo di delegittimare le campagne Bds. Una strategia di ingerenza che ha trovato il suo massimo picco nel recentissimo "scandalo" diplomatico nel quale un alto funzionario dell'ambasciata israeliana a Londra si era espresso a favore dell'eliminazione di un parlamentare conservatore che aveva criticato l'occupazione dei Territori.

Il funzionario, che in seguito alla pubblicazione delle sue dichiarazioni "off the record" si è dimesso dall'incarico, sarebbe stato a capo delle strategie di lobbying volte a influenzare decisori politici e movimenti studenteschi. Ora indagherà una commissione istituita allo scopo dalla House of Commons. Si calcola che i due ministeri di Tel Aviv abbiano speso almeno 34 milioni di dollari per le iniziative contro la campagna Bds, mentre lo scorso anno per la prima volta si tenne in Israele, su iniziativa del quotidiano Yedioth Ahronot, una conferenza contro la Bds, nella quale più volte i sostenitori della campagna vennero accusati di essere terroristi.

Una piega preoccupante, già stigmatizzata dalla relatrice Onu per i Difensori dei Diritti umani, in carica prima dall'attuale relatore Michel Forst, secondo la quale l'equiparazione tra attivisti e terroristi ("La Bds è il nuovo volto del terrorismo" ebbe a dire il ministro di Giustizia Ayelet Shaked) delegittima il lavoro dei difensori dei diritti umani, e ne aumenta la vulnerabilità.

Così facendo infatti si rischia di presentare i difensori dei diritti umani come obiettivo legittimo di abusi e violazioni da parte di attori statuali e non statuali. Uno spazio di "agibilità" quindi che viene ristretto gradualmente, attraverso pratiche di stigmatizzazione e "criminalizzazione" di ogni forma di dissenso. Un rischio ancor più evidente vista la "sindrome da isolamento" nella quale pare essere caduta l'amministrazione israeliana, ormai determinata a procedere con le sue politiche di insediamento illegale, incurante delle risoluzioni Onu e della pressione internazionale.

La strategia di attacco alla campagna Bds non va poi disgiunta da quella rivolta al "fronte interno", caratterizzata anch'essa da una graduale delegittimazione di quei difensori dei diritti umani, israeliani e palestinesi, che denunciano le violazioni dei diritti umani nei territori occupati.

Nei mesi scorsi ha suscitato scalpore e proteste da ogni parte del mondo, dall'Unione Europea alle Nazioni Unite, l'emanazione di leggi contro le organizzazioni non-governative mirate a restringerne l'ambito di iniziativa, e a minarne le basi di finanziamento. Per esempio, si sancisce l'obbligo di rendere note le fonti di finanziamento provenienti da organismi multilaterali, mentre si escludono da tale obbligo quelle associazioni che ricevono fondi da privati, principalmente organizzazioni di coloni.

Come ebbe a dire il Consiglio Onu sui Diritti Umani nel luglio dello scorso anno, queste leggi "sortiranno un effetto negativo sui difensori dei diritti umani e sul loro contributo legittimo e di gran valore al dibattito sui diritti umani in Israele, inclusi coloro che mettono in discussione la politica del governo israeliano nei territori occupati". Poche settimane prima dell'approvazione della Legge sulle Ong, la Knesset aveva approvato una legge sul terrorismo che permetterà al governo di mettere al bando qualsiasi Ong che "indirettamente" sosterrebbe attività "terroristiche", fornendo così, con il pretesto della lotta al terrorismo, ulteriori possibilità di perseguire ogni forma di dissenso, seppur pacifica e nonviolenta.

Giova sottolineare al riguardo che nel suo rapporto sulla situazione degli "Human Right Defenders" dello scorso anno, il relatore speciale Onu Michel Forst aveva stigmatizzato il ricorso al pretesto della lotta al terrorismo come giustificazione per attaccare in ogni parte del mondo l'attività dei difensori dei diritti umani. Ciononostante, nei giorni scorsi è stata approvata - sempre in Senato - la ratifica dell'Accordo di cooperazione tra Italia ed Israele nel settore della pubblica sicurezza, che prevede anche misure di collaborazione nella lotta al terrorismo.

Questione che non può suscitare preoccupazione visto l'uso strumentale del termine da parte delle autorità israeliane, volto appunto a restringere gli spazi di agibilità delle organizzazioni per i diritti umani israeliane e palestinesi, a fronte di una drammatica escalation delle violazioni dei diritti umani da parte delle forze di sicurezza israeliane.