di Luigi Daniele, Nottingham Trent University e Università di Napoli Federico II
Nelle scorse settimane ha suscitato grande attenzione e dibattito l’approvazione, da parte del Consiglio di Sicurezza (CdS) delle Nazioni Unite, della risoluzione 2334 del 2016, che ha ribadito con nettezza l’illegalità internazionale degli insediamenti israeliani nel Territorio Palestinese occupato dal 1967, inclusa Gerusalemme Est. E’ passato quasi inosservato, invece, un importante appello sottoscritto, proprio alla vigilia del voto del CdS, da più di 200 giuristi e docenti di diritto internazionale contro i provvedimenti adottati da diversi Stati per sanzionare, ed in alcuni casi criminalizzare, il movimento “Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni” (BDS), da anni impegnato nel promuovere scelte di consumo critico dei cittadini e di non collaborazione economica di istituzioni nazionali e locali con aziende ed enti implicati nell’occupazione israeliana della Cisgiordania e nelle pratiche che violano i diritti umani dei Palestinesi.
In uno dei passaggi decisivi dell’appello citato si dichiara: «il fatto che si approvino o meno gli obiettivi o i metodi di BDS non è il tema principale. La questione è se, al fine di proteggere Israele, debba essere limitata la libertà di espressione che occupa una posizione chiave tra i diritti umani fondamentali. Gli Stati che vietano il BDS stanno minando questo diritto umano fondamentale e minacciano la credibilità dei diritti umani».
Le vicende su cui il documento insiste presentano, dunque, diversi profili di interesse. Esse incrociano, infatti, almeno due piani critici del discorso internazionalistico: da un lato, il crescente dibattito – anche giurisprudenziale – relativo a contenuto e limiti del diritto alla libertà di espressione, così come sancito nelle Carte internazionali dei diritti dell’uomo; dall’altro, il confronto sempre più serrato in dottrina su orizzonti e contraddizioni dei movimenti per i diritti umani del mondo, sul tramonto del potenziale emancipatore di questi diritti e sull’emersione di un loro “lato oscuro” in grado di mutarne, e persino capovolgerne, la funzione.
Questa riflessione si propone di svolgere qualche osservazione in merito a tali piani critici, partendo dalle istanze della campagna BDS e dalle iniziative legislative per vietarla ed osservando, in controluce, il conflitto israelo-palestinese dal punto di vista della legalità internazionale e delle relative violazioni, così come ricostruite dalla risoluzione 2334.
La risonanza della campagna BDS nel mondo ha spinto il Governo israeliano, negli ultimi anni, su posizioni politiche molto aggressive nei confronti del movimento stesso, inclusa l’apertura a strategie di contrasto che hanno suscitato le proteste di diverse organizzazioni per i diritti umani. Già nel luglio del 2011 la Knesset aveva approvato il Bill for Prevention of Damage to the State of Israel Through Boycott, che (a seguito di emendamenti che avevano modificato le norme della legge inizialmente intese alla creazione di una fattispecie di reato) sanzionava la promozione del boicottaggio come illecito civile, imponendo a singoli ed organizzazioni responsabili di tale illecito severe sanzioni e obblighi di risarcimento, anche indipendentemente da un effettivo danno economico causato (cd. exemplary damages). La legge suscitò le proteste di diverse ONG israeliane per i diritti civili e spinse organizzazioni come Human Rights Watch a parlare, già allora, di legge di «repressione dell’espressione». La radicalità del contrasto al movimento BDS è poi andata via via crescendo, sia nell’intensità, che nel tipo di argomentazioni utilizzate. A riprova di ciò basti pensare che, a marzo dello scorso anno, il Ministro israeliano con delega all’intelligence, Yisrael Katz, ha parlato apertamente della necessità di «eliminazioni civili mirate» in relazione ai leader del movimento BDS, tanto da spingere Amnesty International ad emettere un duro comunicato in cui si leggeva nell’espressione del Ministro un’allusione ad omicidi mirati («The term alludes to “targeted assassinations” which is used to describe Israel’s policy of targeting members of Palestinian armed groups») e si chiedeva al Governo di Israele di «cessare le intimidazioni contro i difensori dei diritti umani» e di «proteggerli dagli attacchi». Non solo. Secondo diverse testate nazionali, nel 2015 il Governo israeliano (a sostegno di quella che alcuni commentatori hanno definito una «dichiarazione di guerra» contro la campagna) ha stanziato circa 100 milioni di Shekel (26 milioni di Euro) per attività interne ed internazionali di contrasto al movimento.
Va notato che le iniziative di BDS hanno condotto a diversi sviluppi salutati dagli attivisti della campagna come successi. Tra i più recenti, ad esempio, la vendita della maggior parte dei propri rami d’attività in Israele da parte della società inglese di servizi di sicurezza ‘G4S’, presa di mira a causa della fornitura di servizi, equipaggiamento e tecnologie per prigioni militari, checkpoint ed insediamenti israeliani in Cisgiordiania, o ancora il ritiro del gigante delle telecomunicazioni francesi Orange dalle attività in Israele, a detta di molti dovuto alle mobilitazioni per il relativo boicottaggio moltiplicatesi in altri paesi, soprattutto a seguito della pubblicazione di un rapporto (a firma di diverse ONG e della stessa Confédération générale du travail) sulle implicazioni della compagnia nell’infrastruttura dell’occupazione.
I rapporti di questo tipo ad opera di organizzazioni per i diritti umani sono numerosi. Tali documenti risultano accomunati dal riferimento costante ai Principi Guida delle Nazioni Unite su Impresa e Diritti Umani (recepiti anche in Italia dal Piano di Azione Nazionale predisposto dal Comitato interministeriale per i diritti umani), inserendosi quindi in un quadro generale di politiche istituzionali volte alla responsabilizzazione delle imprese per le violazioni del diritto internazionale ovunque esse siano commesse e da qualsiasi attore. In questo quadro generale, tuttavia, nessuna mobilitazione ha suscitato tensioni paragonabili a quelle incentrate su BDS.
Rimane quindi da chiarire quali siano i propositi specifici delle iniziative per il boicottaggio di cui si discute. Significativo, a riguardo, è uno degli appelli costitutivi della campagna, sottoscritto nel 2005 da centinaia di organizzazioni palestinesi di diversa ispirazione, dal titolo «Appello della Società Civile Palestinese al boicottaggio, al ritiro degli investimenti e all’applicazione di sanzioni contro lo stato di Israele fino a quando non rispetterà il Diritto Internazionale ed i Principi Universali dei Diritti dell’Uomo» (disponibile qui; corsivo aggiunto). Nel testo dell’appello si legge la richiesta di realizzare iniziative di disinvestimento contro Israele «simili a quelle applicate al Sud Africa nel periodo dell’apartheid», al fine di «porre termine alla occupazione e alla colonizzazione di tutte le terre arabe e smantella[re] il Muro», di «riconosce[re] i diritti fondamentali dei cittadini Arabo-Palestinesi di Israele alla piena uguaglianza» e di promuovere il diritto al ritorno dei profughi palestinesi «come stabilito nella risoluzione 194 dell’ONU». Tale richiesta, rivolta significativamente anche agli «israeliani di buona volontà, nell’interesse della giustizia e di una pace effettiva», viene apertamente qualificata dai redattori come strumento di extrema ratio, poiché, secondo gli stessi, «tutte le forme di intervento internazionale e di peace-making hanno fino ad ora fallito nel far rispettare le leggi umanitarie, i diritti umani fondamentali e a porre termine alla occupazione e all’oppressione del popolo palestinese».
A fronte di tali esplicite premesse, appaiono privi di forza persuasiva gli argomenti contro BDS incentrati sulle accuse di razzismo e di antisemitismo rivolte di frequente alla campagna da diversi commentatori (v., tra gli altri, Hirsh).
Ma, soprattutto, per ciò che più rileva ai fini di questa riflessione, appare doveroso costatare che (indipendentemente da quanto soggettivamente si condividano o si dissenta dalle istanze da ultimo analizzate) l’ “ordine del discorso” del diritto internazionale, insieme alle parole d’ordine dell’autodeterminazione, della tutela dei diritti dell’uomo, della non discriminazione e della pace, costituiscono il principale ancoraggio delle rivendicazioni della campagna.
Questo rilievo risulta particolarmente evidente ed attuale proprio in virtù della risoluzione 2334, il cui contenuto appare evidenziare quanto le istanze del movimento BDS riproducano, sul piano della mobilitazione civica, i moniti istituzionali contro le violazioni della legalità internazionale reiteratesi nel conflitto mediorientale.
La risoluzione, infatti, esprime ferma condanna circa la costruzione e l’espansione degli insediamenti e le correlate «confische, demolizioni di abitazioni e rimozioni (displacement)» di civili Palestinesi susseguitesi negli anni. Il Consiglio di Sicurezza (CdS), dunque, è tornato a sottolineare la «insostenibilità dello status quo» nell’occupazione della Cisgiordania, poiché ritenuto funzionale ad una costante ed indebita «erosione» della possibilità di risolvere il conflitto sulla base della formula dei due Stati. Nella risoluzione si chiede inoltre ai paesi terzi di «distinguere, in tutti i rilevanti rapporti, tra i territori dello Stato di Israele e i territori occupati a partire dal 1967» e, soprattutto, si riafferma l’obbligazione in capo ad Israele di smantellare gli insediamenti «costruiti a partire dal marzo 2001».
Le dure reazioni da parte israeliana non hanno tardato a manifestarsi: l’ambasciatore di Israele all’ONU ha dichiarato ufficialmente che il documento «si aggiunge alla lunga e vergognosa lista di risoluzioni anti-Israele delle Nazioni Unite»; il Primo Ministro israeliano ha definito il voto una inaccettabile «imboscata ai danni di Israele», la cui responsabilità graverebbe sull’amministrazione Obama (gli Stati Uniti, come noto, nel voto al CdS si sono astenuti, rinunciando ad esercitare il proprio diritto di veto). Le accuse di ostilità rivolte all’amministrazione statunitense, tuttavia, dimenticano che, solo pochi mesi prima, quest’ultima aveva approvato proprio a favore di Israele il più grande piano di aiuti militari che gli Stati Uniti avessero mai concesso ad uno Stato alleato (circa 38 miliardi di dollari) nella propria storia. Intanto, a dispetto dei moniti della risoluzione 2334, la Municipalità di Gerusalemme, tramite propri funzionari, poche ore dopo il voto ha confermato l’intento di approvare a breve la costruzione di 5.600 nuove unità abitative situate in Territorio occupato. Non sorprende, in realtà, la linea del Governo israeliano di collisione politica frontale con la comunità internazionale, considerato quanto già dichiarato a settembre da Netanyahu nel corso della settantunesima sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, in cui, tra l’altro, definì il Consiglio dei Diritti Umani «una presa in giro» («And what about the joke called UN Human Rights Council […] ?»).
La risoluzione, tuttavia, nonostante le reazioni del Governo israeliano, costituisce per lo più un consolidamento degli orientamenti già espressi a più riprese in precedenza da diverse istituzioni internazionali.
Per una breve ricostruzione dei termini giuridico-internazionalistici della questione dell’occupazione israeliana, vale la pena ricordare che è la stessa International Court of Justice (ICJ), nella nota Advisory Opinion sulle conseguenze legali della costruzione del muro nel Territorio Palestinese occupato, ad essersi espressa nel senso dell’illegalità internazionale degli insediamenti israeliani in Cisgiordania, precisando che essi violano le prescrizioni dell’art. 49, VI cpv. della Quarta Convenzione di Ginevra del 1949, che vieta alla potenza occupante di «trasferire parte della propria popolazione civile in territorio occupato»; un divieto, inoltre, che tra le fonti del diritto internazionale umanitario risulta dotato di particolare forza, poiché: 1) ritenuto di rango consuetudinario e 2) qualificato come grave breach del sistema di protezione delle Convenzioni (nello specifico, dall’art. 85, par. 4, lett. a del Primo Protocollo Addizionale alle Convenzioni del 1977, articolo poi utilizzato quale modello redazionale delle fattispecie di crimini di guerra dello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale, che, infatti, tipizza la condotta in esame all’art. 8(2)(b)(viii).
La recente risoluzione 2334, in altre parole, non fa altro che ribadire numerose affermazioni precedenti del Consiglio di Sicurezza (a partire dalle Risoluzioni 446 e 452 del 1979 e confermate a più riprese), e della stessa Corte nella citata Advisory Opinion (par. 120), quando dichiara che la politica degli insediamenti di Israele «non ha valore legale» e costituisce una «flagrante violazione» della Quarta Convenzione di Ginevra.
Anche la Quarta Convenzione dell’Aia del 1907, in realtà, detta prescrizioni rilevanti per la situazione in esame. Nei Regolamenti sulle leggi e le consuetudini della guerra terrestre annessi alla Convenzione, infatti, all’art. 55, si stabilisce che «Lo Stato occupante va considerato esclusivamente quale amministratore ed usufruttuario [corsivo aggiunto] degli edifici pubblici, degli immobili, delle foreste e dei terreni appartenenti allo Stato ostile e che si trovino in territorio occupato»; è inoltre sancito che «il capitale di tali proprietà va salvaguardato, ed esse vanno amministrate in ossequio ai principi dell’usufrutto». Chiaramente il diritto dei conflitti armati non è più quello del 1907, ma secondo diverse ricostruzioni assai più recenti e dedicate specificamente al diritto dell’occupazione, vi sono solo due condizioni (discendenti dalla citata disposizione) che giustificano l’esercizio di attività economiche in territorio occupato da parte della potenza occupante, e cioè: 1) la presenza di imperanti ragioni di necessità militare e 2) il beneficio per la popolazione dello Stato sotto occupazione (v., tra gli altri, Arahi Takahashi, p.169). Mentre anche a livello domestico la giurisprudenza israeliana ha richiamato in diversi casi questi principi (v. gli orientamenti della Corte Suprema di Israele nei casi Beth El [Ayub et al. v. Minister of Defense et al., HCJ 610/78] ed Elon Moreh and Cooperative Society [ Duweikat et al. v. Government of Israel et al., HCJ 390/79]), le condizioni menzionate non sembrano sussistere nel caso degli insediamenti in questione. A testimonianza del contrario, si noti che proprio in questi giorni la Knesset discute il cd. Regulations Bill, controversa legge che, se approvata, a detta di diversi internazionalisti israeliani, legalizzerebbe retroattivamente (ovviamente nella sola prospettiva dell’ordinamento domestico) la situazione di migliaia di edifici costruiti in violazione dei suddetti principi ed insistenti su proprietà private palestinesi oggetto di espropriazioni illegali (v. Ronen e Shani).
Gli effetti dell’occupazione israeliana, inoltre, collidono con diversi principi discendenti dallo Statuto delle Nazioni Unite. Il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese, infatti, ripetutamente riconosciuto a livello internazionale (v. ancora il Parere Consultivo dell’ICJ, cit., par. 149), non può che risultare gravemente leso dal protrarsi dell’occupazione, dalla crescita e dalla moltiplicazione degli insediamenti stessi (v., tra gli altri, Ben-Naftali, Gross e Michaeli).
Similmente, sul piano delle violazioni dei diritti dell’uomo, l’utilizzo di concetti come ‘apartheid’ e ‘segregazione’ non appare liquidabile come arbitrio della campagna BDS, poiché diverse prassi di legislazioni e trattamenti differenziali riscontrabili nello scenario del conflitto rivelano ampi margini di sussunzione alle definizioni giuridiche dei due fenomeni (in particolare sulla base degli elementi forniti dalla Convenzione per la soppressione e la punizione del crimine di Apartheid del 1973 e dalla Convenzione per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale del 1965). Fenomeni che, infatti, sono stati analizzati in riferimento specifico alla situazione palestinese da numerosi ed autorevoli giuristi, spingendo molti a sostenere che «there are indeed strong grounds to conclude that a system of apartheid has developed in the occupied Palestinian territory» (Dugard e Reynolds, p. 912).
A ben vedere, non mancano le analisi giuridiche che, ancor più categoricamente della campagna BDS, hanno sostenuto, sulla base di tutti gli elementi richiamati, l’esistenza non solo di una facoltà, ma di un vero e proprio obbligo internazionale a carico degli Stati terzi di non commerciabilità di prodotti degli insediamenti israeliani in Territorio Palestinese occupato (v. Moerenhout qui e qui; contra, v. Kantorovich e Crawford). Uno dei nodi più controversi di questo dibattito è l’esistenza, o meno, di obblighi di non riconoscimento self-executing (da cui discenderebbe il dovere di non intrattenere rapporti commerciali) da parte di Stati terzi rispetto ad occupazioni e annessioni che violino i principi di non aggressione e di integrità territoriale degli Stati. Legittimo, a riguardo, il paragone col caso dell’annessione della Crimea da parte della Federazione Russa, cui il Consiglio d’Europa rispose con la proibizione delle importazioni dalla regione e da Sebastopoli (v. le conclusioni del Consiglio del marzo 2014). La questione rimane controversa (v. Milano), tuttavia, registrandosi un dibattito così aperto ed impegnativo in proposito, non può che risultare sorprendente l’insieme di provvedimenti di cui, come si vedrà, il movimento BDS è stato destinatario in diversi Paesi.
Significativamente, il fatto che le istanze di fondo della campagna riecheggino norme convenzionali, risoluzioni dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e del Consiglio di Sicurezza, nonché importanti pronunce della Corte Internazionale di Giustizia, non solo non ha ostacolato, nel dibattito politico, la tendenza a ricondurre questa forma pacifica di mobilitazione (intesa a influire sulle scelte politico-militari di un Governo) ad una discriminazione razziale su base etnica o nazionale, ma non è valsa nemmeno ad arginare le iniziative legislative volte ad imporre questa discutibile visione juris et de jure.
Negli ultimi anni, infatti, ed in molti stati, le iniziative contro BDS sono culminate in provvedimenti legislativi di contrasto di varia natura. Da essi prendono le mosse sia l’appello citato in apertura, sia le posizioni espresse da diversi governi e istituzioni internazionali, inclusa l’Unione Europea, che vedono nella campagna una forma legittima di esercizio del fondamentale diritto umano alla libera espressione, come tale non comprimibile o sanzionabile. Gli interventi in senso contrario, tuttavia, sono troppo numerosi e differenziati per poter essere esaurientemente esaminati in questa sede. Qualche esempio, però, può offrire degli elementi di ricostruzione dello scenario.
Negli Stati Uniti, i provvedimenti in questione hanno assunto per lo più la forma di leggi adottate dai singoli Stati per vietare collaborazioni commerciali, o imporre l’esclusione dalle gare pubbliche, delle compagnie che aderiscono a boicottaggi nei confronti di stati non colpiti da embarghi o sanzioni. Particolarmente esplicita, tra le altre, la legislazione adottata dall’Illinois, che ha imposto la stesura di una blacklist di compagnie che aderiscono al boicottaggio di Israele e ha vietato al fondo pensioni dello Stato di concludervi contratti o investirvi. Tali compagnie vengono identificate sulla base di azioni «politicamente motivate e che sono dirette a penalizzare, causare un danno economico o limitare in altro modo le relazioni commerciali con lo Stato di Israele» (v. il relativo emendamento al Pension Code adottato dall’Assemblea Generale dell’Illinois). In numerosi Stati, inoltre, risultano approvate o in discussione leggi simili a quella menzionata (v. il commento apparso sulla Harvard Law Review relativo alla legislazione adottata in South Carolina).
Nel Regno Unito, hanno fatto discutere le linee guida pubblicate dal Governo a febbraio (con l’intento dichiarato di contrastare la campagna BDS) sul public procurement, in cui sostanzialmente si impone alle istituzioni locali, ad enti pubblici e a gestori di servizi di pubblico interesse di escludere dai propri rapporti aziende aderenti a campagne di boicottaggio, al di fuori dei casi in cui il Governo stesso abbia adottato «formali sanzioni giuridiche, embarghi o altre restrizioni». Allo stesso tempo, a giugno, la High Court of Justice ha respinto il ricorso di Jewish Human Rights Watch contro le mozioni di alcuni Consigli cittadini (Leicester, Swansea e Gwynned) che avevano aderito al boicottaggio dei beni prodotti negli insediamenti israeliani.
In Canada, il Parlamento ha approvato a febbraio una mozione che dichiara di «respingere» la campagna, che – secondo il testo – «promuove la demonizzazione e la delegittimazione dello Stato di Israele», e chiede al Governo di «condannare ogni tentativo da parte di organizzazioni, gruppi o singoli canadesi di promuovere il movimento BDS». Non sono mancate, inoltre, le voci a sostegno della riconduzione delle ipotesi di adesione o promozione della campagna a fattispecie di hate speech.
In Francia il panorama legislativo e giurisprudenziale appare particolarmente rilevante ai fini di questa riflessione. La patria di Charlie Hebdo si è candidata ad essere l’unico Stato, oltre ad Israele stesso, a sanzionare autonomamente gli appelli dei cittadini a non comprare prodotti israeliani. L’art. 225-2, II co. del Codice penale francese, infatti, punisce con la reclusione fino a tre anni le condotte di chi, sulla base di una discriminazione o di una istigazione alla discriminazione in virtù dell’origine o dell’appartenenza ad un gruppo nazionale, ostacoli «l’esercizio di qualsiasi attività economica». Uno dei casi più discussi dalla dottrina francese, tuttavia, è emerso da incriminazioni formulate sulla base di norme diverse rispetto al citato articolo del Code pénal. Nell’ottobre 2015, infatti, la sezione penale della Cour de Cassation, confermando la condanna inflitta e l’incriminazione formulata dalla Corte d’appello di Colmar nei confronti di attivisti che avevano distribuito volantini contenenti appelli al boicottaggio di Israele in un supermercato, ha ritenuto che nel caso di specie la Corte d’appello avesse a buon diritto applicato estensivamente l’art. 24 par. 8, come modificato nel 2014, della Legge sulla libertà di stampa del 1881, che punisce le fattispecie di istigazione pubblica alla discriminazione, che avesse, altresì, giustamente escluso tali condotte dall’alveo di protezione del diritto alla libertà di espressione di cui all’art. 10 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. La suprema Corte ha precisato che gli imputati, attraverso la loro azione, avevano istigato a discriminare i prodotti provenienti da Israele, incitando i clienti a non comprarli in ragione dell’origine nazionale della merce, dei produttori e dei fornitori, e che in questa cornice la compressione della libertà di espressione risultava necessaria in virtù della protezione dei diritti altrui, come previsto dall’art. 10, co.2 della CEDU ( Cass. Crim., 20 octobre 2015, n° 1480021, disponibile qui ). È stato oggetto di numerose critiche, in merito, (v., tra gli altri, Médard) il fatto che la Cassazione francese abbia omesso di chiarire in cosa la “provocazione” al boicottaggio sarebbe stata caratterizzata da moventi razzisti o xenofobi penalmente rilevanti.
Anche in Italia risulta proposto all’esame del Senato un disegno di legge che appare tra i più illiberali che si riscontrino nel panorama internazionale cui si è fatto cenno e che presenta, da un punto di vista penalistico e costituzionalmente orientato, diversi profili di allarme. Si tratta di una iniziativa tesa a innovare l’impianto della l. 654 del 1975 (legge di ratifica della citata Convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale), come modificato dalla legge 205 del 1993 (cd. “Legge Mancino”), introducendo nuove fattispecie di reato i cui contorni risultano concepiti proprio per attribuire rilevanza penale all’adesione alla campagna BDS (non si tratta di una deduzione, ma delle affermazioni contenute nella stessa relazione introduttiva dei proponenti). Il Ddl propone di punire «con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque incita a commettere o commette atti di discriminazione» nei confronti di persona fisica o giuridica, «in ragione dell’appartenenza» non solo ad un gruppo «nazionale, etnico, razziale o religioso», ma anche «territoriale» o «statuale» (termini, questi ultimi, che non compaiono tra quelli già presenti nella legge Mancino), laddove operata da chi eserciti «un potere, di fatto o di diritto, il cui esercizio è idoneo ad arrecare un danno ingiusto». Costituisce sempre danno ingiusto, ai fini della proposta in esame, « a) il rifiuto della fornitura di un bene o di un servizio da parte di colui che svolge attività commerciale aperta al pubblico […]; b) l’intralcio dell’esercizio di qualsiasi attività economica » (corsivo aggiunto). Ricalcando, su queste basi, la legge Mancino, che vieta «ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo» avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione, e che punisce anche la mera «partecipazione o assistenza» a tali gruppi con la reclusione da sei mesi a tre anni, si propone poi un significativo aumento del minimo edittale della pena per coloro che «promuovono o dirigono» tali movimenti o gruppi, puniti «per ciò solo» con la reclusione da tre a sei anni. I profili di grave indeterminatezza e irrazionalità delle norme proposte sono numerosi e in collisione con diversi principi della Costituzione, tanto da suscitare profondi dubbi sulla legittimità costituzionale della legge che risulterebbe dall’approvazione di tale disegno.
Simili istanze di criminalizzazione, basate sull’espansione delle fattispecie di istigazione alla discriminazione razziale e all’antisemitismo, rivelano, a ben vedere, diversi e gravi pericoli. Su tutti, e particolarmente stridente con le retoriche delle forze promotrici di tali istanze, quello di generare la potenziale incriminazione degli stessi cittadini e gruppi che si dichiara di voler proteggere da discriminazioni: si pensi ai numerosi casi di commentatori convintamente sionisti, di organizzazioni ebraiche e persino di sopravvissuti agli orrori dell’Olocausto dichiaratisi, negli ultimi anni, a favore della campagna di boicottaggio di Israele.
I paradossi di questo scenario, tuttavia, risultano più generali e complessi. Sulla base delle leggi e delle proposte di legge cui si è fatto cenno da ultimo, infatti, la Convenzione per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale diventa indirettamente fonte di criminalizzazione proprio dei soggetti che ne chiedano attivamente il rispetto. Sono proprio le leggi di ratifica della Convenzione, infatti, ad essere modificate per punire le espressioni di una campagna dichiaratamente finalizzata a riaffermare la cogenza dei diritti in essa sanciti.
In altre parole, una perfetta rappresentazione dei nodi critici accennati in apertura, capace di rivelare un preciso punto di ricaduta della possibilità di mettere fuori legge e reprimere, a livello statuale, non le violazioni del diritto internazionale, ma piuttosto le lotte per la sua affermazione e per la legalità internazionale.
Difficile riscontrare, dunque, esempio meglio situato al centro di quel lato oscuro dei diritti dell’uomo rivelato dalle crescenti istanze repressive che troppo spesso assumono il diritto penale quale principale strumento a garanzia dell’effettività di questi diritti, ignare della dimensione, al contrario, potenzialmente “sovversiva” (v. Manacorda, p.338) rispetto alla tutela dei diritti fondamentali che l’espansione dei sistemi penali e l’orientarsi delle politiche criminali degli Stati a finalità meramente simboliche portano con sé come rischio tutt’altro che remoto (v. Moccia, pp. 123 ss).
Non solo. È difficile trovare esempio più appropriato per descrivere l’intersezione tra questo “lato oscuro” e quella trasformazione del linguaggio dei diritti umani in κοινή del mondo che più si espande, più sembra perdere profondità ed effettività.
Un linguaggio che progressivamente sussume, e di cui progressivamente si appropriano, i più diversi attori e poteri dello scenario globale, siano essi dominanti o dominati, colonizzatori o colonizzati, egemoni o subalterni, liberali o autoritari. “Ascesa e caduta” dei diritti umani, da questo punto di vista, sembrano destinate a coesistere, ad alternarsi costantemente e persino a coincidere, in una sorta di moto perpetuo di neutralizzazioni e capovolgimenti delle rispettive funzioni di protezione degli individui, in generale, e dei soggetti vulnerabili, in particolare. «Più aumenta il raggio di luce di cui i diritti umani si fanno portatori – si è efficacemente notato – più emerge il cono di ombra, il loro lato oscuro» (v. Meccharelli, Palchetti e Sotis).
I diritti umani tendono all’universale, ma l’universalismo porta con sé le spinte alla de-politicizzazione e alla rimozione delle dinamiche conflittuali da cui quei diritti sono emersi, astraendo progressivamente l’umano delle Convenzioni dal campo di tensioni in cui è invece inserito l’uomo come soggetto storico e politico. Più si provano ad espandere le implicazioni universalistiche di questi diritti e la loro presunta “neutralità”, più si generalizza la tendenza alla trasformazione del linguaggio dei diritti umani in un caleidoscopio di traduzioni e rivendicazioni volte ad “universalizzare” interessi particolari, in cui – a seconda di chi in un dato contesto operi quale “traduttore” – i concetti di abuso, colpevole e vittima risultano drammaticamente intercambiabili (v. Gordon e Perugini).
Lo stesso fenomeno sembra insistere sempre più anche sul diritto dei conflitti armati. Se, da un lato, simile processo è connaturale alla storia e alla struttura del diritto internazionale umanitario (la cui applicazione è fondata su una tendenziale irrilevanza dei propositi politici dei belligeranti e sul principio di non reciprocità), dall’altro basta pensare alla situazione del conflitto siriano per riscontrare quanto tale processo di capovolgimenti e neutralizzazioni abbia raggiunto una sorta di apoteosi anomica, che satura i discorsi sulla protezione dei civili in tempo di guerra e li riduce a dispositivo retorico di produzione delle opposte rivendicazioni, da parte dei poteri in conflitto, di funzioni “universali” (guerra al terrorismo, guerra umanitaria, etc.) alla base delle proprie azioni militari, quasi sempre al fine di giustificarne il relativo carattere indiscriminato.
Cui prodest, dunque, la scelta di utilizzo di questa lingua franca? Esistono soggetti collettivi, che non siano gli Stati, né i poteri transnazionali dominanti, in grado di restituire a questo linguaggio una funzione storica progressiva?
Di «fine» o «tramonto» dei diritti dell’uomo e del relativo potenziale emancipatore si parla sempre di più (v., tra gli altri, Hopgood e Posner). Particolarmente significativo, in merito, è il punto di vista di chi ha sottolineato che, nell’era del neoliberismo, sfugge al linguaggio dei diritti umani, neutralizzandone la performatività, la possibilità di assumere la centralità dell’uguaglianza quale fattore cruciale di trasformazione della realtà. «Anche perfettamente realizzati – si è detto – i diritti umani sono compatibili con la diseguaglianza radicale» (v. Moyn qui e qui).
Sembra, tuttavia, che proprio il cortocircuito prodotto da campagne del tipo di BDS, e il cui senso può estendersi a tutte le forme di lotte per i diritti basate su appelli al consumo critico e al boicottaggio, sia testimonianza di una possibilità. Ed infatti, se, da un lato, può sottoscriversi quanto dichiarato dall’appello alla base di questa riflessione, e cioè che questo tipo di campagne rappresentano un esercizio del fondamentale diritto alla libera espressione, alla manifestazione del pensiero e delle convinzioni politiche, dall’altro, tale inquadramento non sembra cogliere un aspetto dirimente: il cortocircuito anti-egemonico che queste mobilitazioni dimostrano di essere in grado di innescare, pur servendosi dello stesso “idioma dell’egemone”, sembra principalmente connesso alla capacità di andare oltre la dimensione esclusivamente individuale e la mera espressione, trasformando quella lingua franca dei diritti umani in una piattaforma di azione collettiva, capace di organizzare una conflittualità diffusa sia contro il godimento radicalmente diseguale di questi diritti sulla base della cittadinanza, sia contro la profonda e persistente selettività sulla base dei rapporti di forza internazionali che ne caratterizza i meccanismi sanzionatori delle gravi violazioni.
Tornano attuali, in questo senso, le analisi e le proposte dei giuristi che hanno provato ad attualizzare, riconducendole allo scenario internazionale, le indicazioni del pensiero e della teoria dell’egemonia di Antonio Gramsci. Alcuni tra essi (rileggendo le pagine gramsciane in cui si riflette sulle concezioni dell’elemento economico applicate alla scienza storica e all’arte politica, v. Quaderno 7 (VII) § 10) hanno sottolineato la centralità non solo tattica, ma anche strategica, di movimenti per il consumo critico e il boicottaggio nell’orizzonte della tutela e della promozione dei diritti dell’uomo nel mondo, all’interno di una prospettiva intesa ad incoraggiare le potenzialità di un sforzo emancipatore per un teoria del diritto internazionale “dal basso”, che concepisca gli Stati «come un terreno plurale e frammentato di contestazione, piuttosto che come un monolite», registrando che «il diritto internazionale e le sue istituzioni forniscono una importante arena», oltre che per le forze transnazionali dominanti di quelle avversarie, in quanto anche dirigenti di quelle alleate, anche «per l’azione di movimenti sociali» di ispirazione progressista, poiché tale diritto e tali istituzioni «espandono lo spazio per politiche trasformative» (Rajagopal, pp. 19 e 23) incentrate sul nesso tra pace, libertà e giustizia sociale.
Non è questo, del resto, uno dei tratti costitutivi del processo storico di affermazione e codificazione di questi diritti? Non a caso, in controtendenza rispetto ai molti lavori dedicati alla centralità delle visioni coloniali ed euro-centriche nell’ascesa del diritto internazionale moderno, diversi studiosi tornano a segnalare l’importanza della opposta Weltanschauung della decolonizzazione – tramite l’opera di politici, giuristi e diplomatici del Global South – nell’aver offerto contributi decisivi all’agenda dei diritti umani tra il 1948 e la metà degli anni ’60 (v., tra gli altri, Jensen, qui e, in sintesi, qui).
In conclusione, dunque, può dirsi che campagne del tipo di BDS – la cui tutela come legittimo esercizio della libertà di espressione, di manifestazione del pensiero e delle convinzioni politiche dovrebbe essere patrimonio comune di ogni giurista, legislatore e cittadino sensibile ai dettami dello Stato di diritto – ben oltre il merito delle rispettive e specifiche istanze, sembrano aver formulato delle prospettive di pratica politico-civile dei diritti umani capaci di delinearne nuovi orizzonti di senso, utili a chi volesse far “camminare” questi diritti, nel loro rapporto dialettico con i poteri internazionali, “sui piedi, anziché sulla testa”.