di Samah Sabawi
Questo lavoro è stato preparato per la Conferenza 7arakat: Teatro, Diversità Culturale e Inclusione, Novembre 2012 ed è stato pubblicato inizialmente negli Atti della Conferenza 7arakat.
Introduzione
Gli artisti internazionali si trovano a un bivio tra il desiderio di sostenere tutte le forme di espressione artistica, israeliana o qualsiasi altra, e l’appello della società civile palestinese in favore di un boicottaggio culturale di tutte le forme d’arte sponsorizzate dallo Stato Israeliano. Alcuni sostengono che arte e cultura sono apolitiche e boicottarle sarebbe una violazione della libertà di espressione. Insistono che l’arte è un linguaggio di pace e che edifica ponti. Altri sostengono che la cultura e l’arte sono di fatto politiche e possono servire come strumenti di propaganda politica e repressione. Sottolineano la responsabilità degli artisti di influenzare il cambiamento aumentando la consapevolezza su problematiche politiche e sociali. In questo lavoro comincerò a esplorare la relazione tra cultura e politica nel conflitto israelo-palestinese, esaminando nel contempo i pro e i contro all’appello della società civile palestinese per un boicottaggio culturale di Israele.
Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni – BDS
Facendo fronte a un processo di pace fallito e a uno stato Palestinese che scompariva, e ispirata dal movimento sudafricano che pose fine all’apartheid, nel 2005 la società civile Palestinese cominciò a costruire un movimento basato sui diritti fondamentali, che adotta una forma di resistenza nonviolenta fondata sulla legge internazionale e sulla dichiarazione universale dei diritti umani. Si appellarono alle persone di buona coscienza di tutto il mondo per applicare boicottaggi, disinvestimenti e sanzioni ad Israele, finché Israele non ponesse termine alla sua occupazione della terra Palestinese, compresa Gerusalemme est, ed adempisse agli obblighi della legge internazionale verso i rifugiati Palestinesi, assegnando piena uguaglianza ai cittadini Palestinesi dello Stato di Israele. Appoggiato da 170 partiti politici palestinesi, da organizzazioni, sindacati e movimenti che rappresentavano i Palestinesi nei Territori Occupati, sia all’interno dei confini di Israele del 1948, sia quelli della Diaspora, l’appello BDS del 2005 rappresenta la voce della maggioranza della società civile palestinese e le sue tre richieste si articolano in una visione unificata palestinese che non può essere ignorata. L’appello BDS è oggi appoggiato da centinaia di attivisti internazionali dei diritti umani, comprese figure prominenti come Stephane Hessel (2010), co-autore della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e sopravvissuto all’Olocausto.
La Campagna Palestinese per il Boicottaggio Culturale e Accademico di Israele (PCABI)
Nel 2006 la maggioranza degli operatori culturali palestinesi, inclusi la maggior parte dei cineasti e degli artisti, assieme a centinaia di intellettuali internazionali diffusero una dichiarazione congiunta a sostegno del BDS. Oggi la lista degli artisti che hanno pubblicamente aderito al boicottaggio culturale e hanno cancellato spettacoli in Israele comprende celebrità di tutto il mondo, come Roger Waters dei Pink Floyd, Annie Lennox, Brian Eno, Devendra Banhart, Tommy Sands, Carlos Santana, Elvis Costello, Gil Scott-Heron e molti altri. La lista comprende anche alcuni famosi scrittori, come Eduardo Galeano, Arundhati Roy e Alice Walker, nonché rinomati cineasti come Ken Loach e Jean-Luc Godard.
Tuttavia, non tutti gli artisti rispondono favorevolmente all’appello al boicottaggio. Alcuni scelgono ancora di esibirsi in Israele, come le stelle Elton John, Madonna e Lady Gaga per citarne alcuni. Questi artisti insistono che esibirsi in Israele promuove la coesistenza pacifica affratellando le persone. Affermano che eventi culturali come i concerti sono apolitici e dovrebbero restare tali. Lamentano che i boicottaggi puntano il dito su Israele ingiustamente e che gli artisti – secondo Elton John – non dovrebbero “piluccare” la loro coscienza (Elton John si esibisce in Israele). Essi sostengono anche che i boicottaggi sono uno strumento rude che sfocia nella punizione collettiva del popolo israeliano.
La cultura è apolitica?
Per capire la relazione tra cultura e politica nel contesto israelo-palestinese è importante rivedere la storia della cultura palestinese e le sfide politiche a cui ha fatto fronte attraverso gli anni della lotta palestinese per la libertà.
In un articolo apparso su Haaretz (15 maggio 2012) che commemorava la Nakba, il dr. Hanan Ashrawi descriveva la società palestinese prima dell’insediamento israeliano del 1948, come altamente sviluppata, commercialmente, artisticamente e culturalmente. Il suo sviluppo economico era uno dei più alti del mondo arabo e la sua scuola media superiore era la seconda, con 379 scuole private già nel 1914, e dozzine di librerie. Infatti, Ashrawi ha scritto che tra il 1911 e il 1948 la Palestina aveva almeno 161 giornali, riviste e altre pubblicazioni, e uno scenario culturale vibrante, con cinema, teatri e concerti musicali, sia con artisti locali che con stelle internazionali, come l’egiziano Om Kalthoum e il cantante libanese Farid Alatrash.
Tutto questo si interruppe nel 1948 quando Israele fu fondato sulle rovine dei villaggi palestinesi. Da allora la cultura palestinese è diventata il bersaglio di un deliberato e sistematico tentativo di cancellazione da parte delle autorità israeliane. Per esempio, una storia venuta alla luce soltanto quest’anno su Al Jazeera, intitolata “Il Grande Furto di Libri”, rivelava come durante il processo di fondazione dello Stato di Israele, dei bibliotecari della Biblioteca Nazionale di Israele accompagnavano i militari israeliani nelle case palestinesi dopo che i loro residenti erano stati scacciati e sistematicamente prendevano tutti i libri che erano stati lasciati in quelle case. I libri comprendevano volumi senza valore della letteratura palestinese araba e musulmana, inclusi poesia, storia, arte e narrativa. Migliaia di questi libri furono distrutti, ma alcuni furono aggiunti alla collezione della Biblioteca e ancora oggi rimangono nella Biblioteca Nazionale di Israele, definiti come proprietà abbandonata, naturalmente ignorando totalmente il fatto che questa proprietà appartiene a tutti gli effetti a persone che furono costrette ad andarsene e a cui non è stato mai permesso di ritornare nelle loro case o di riavere i loro beni, compresi i libri.
Un altro esempio della politicizzazione della cultura nel contesto israelo-palestinese è come le autorità britanniche e poi israeliane abbiano spesso preso di mira non solo i leader politici palestinesi, ma anche gli artisti e gli intellettuali, imprigionandoli, esiliandoli e persino assassinandoli. Tra gli artisti e gli intellettuali assassinati da Israele vi sono stati lo scrittore Ghassan Kanafani (Abukhalil 2012) e il poeta e intellettuale Wael Zuaiter (Jacir 2007). Di grande significato per questa discussione è anche come durante l’invasione israeliana del Libano nel 1982, le forze israeliane abbiano depredato e confiscato gli archivi nazionali dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, che comprendeva preziose e rare collezioni di film e altri prodotti culturali palestinesi (IMEU 2012).
L’attacco di Israele alla cultura palestinese continua fino ad oggi e prende molte forme differenti. Gli artisti palestinesi nella Riva Occidentale occupata e a Gaza assediata patiscono lo stesso destino di tutti gli altri Palestinesi che vivono sotto occupazione. Sono discriminati, la loro libertà di movimento è limitata e i loro diritti umani fondamentali sono negati. Israele non distingue tra cultura e politica. Nel 2005, quando il precedente vice-direttore generale del Ministero degli Esteri, Nissim Ben-Sheetrit, lanciò la campagna “Qualità Israele”, ammise: “Consideriamo la cultura come uno strumento hasbara (di propaganda) di prim’ordine, e non faccio differenza tra propaganda e cultura”, (Ben-Ami 2005). Questo è stato abbondantemente chiaro nel prosieguo del bombardamento di Gaza di tre settimane da parte di Israele nell’inverno 2008-2009. Mentre il mondo assisteva sconvolto all’incredibile devastazione e alla sofferenza umana di un milione e mezzo di persone prigioniere in trappola, per la maggior parte rifugiati e metà di loro sotto i 18 anni, Israele spazzò via tutte le critiche, prendendosela con le cattive relazioni pubbliche, per l’offesa recata alle proprie azioni. La soluzione per migliorare la propria immagine, come rivelato in un articolo del New York Times (Bronner 2009) non fu di diffondere una nota delle sue violazioni, ma di stanziare due milioni di dollari in più dal budget del Ministero degli Esteri Israeliano per migliorare la propria immagine attraverso una “diplomazia culturale e di informazione.” Arye Mekel, il vice-direttore generale per gli affari culturali del dicastero, veniva citato nell’articolo con l’affermazione “Manderemo oltre oceano romanzieri e scrittori ben conosciuti, compagnie di teatro, spettacoli… In tal modo si mostrerà il volto più attraente di Israere, cosicché non si pensi di noi soltanto nel contesto di guerra” (Bronner 2009).
La citazione di Mekel è una perfetta illustrazione di come, se si scava sotto la superficie, si troverà che molte manifestazioni sponsorizzate dallo Stato di Israele, che possono sembrare semplicemente culturali o a scopo di puro divertimento, stanno di fatto guidando le agende politiche e nascondendo crimini simili a quelli commessi a Gaza. Infatti, Israele si spinge così in là nella manipolazione degli eventi culturali che agli artisti che ricevono fondi statali ha messo la condizione di firmare un contratto che li impegna a “promuovere gli interessi politici dello Stato di Israele attraverso la cultura e l’arte, e a contribuire a creare un’immagine positiva di Israele” (Laor 2008). In altre parole, si richiede agli artisti israeliani finanziati dallo Stato di Israele di sostenere le politiche dello stato in pubblico e di tacere sulla discriminazione e sulle atrocità di Israele contro i Palestinesi. Questo è stato confermato quando l’artista israeliano di musica pop Idan Raichel ha ammesso in una intervista pubblicata su Australia-il.com (2008) la natura del rapporto tra lo stato e i suoi artisti sponsorizzati: “Certamente vediamo noi stessi come ambasciatori di Israele nel mondo, ambasciatori culturali, ambasciatori di “propaganda”, anche nei confronti del conflitto politico.”
Possono gli eventi culturali fare affratellare le persone?
Dopo aver stabilito che la cultura nel contesto israelo-palestinese non è apolitica e non può essere vista isolata dall’ambiente politico, vorrei proseguire con la seconda argomentazione sostenuta dagli oppositori del boicottaggio culturale che sono in favore degli spettacoli in Israele, come un mezzo per “la fratellanza tra le persone” e per promuovere “la coesistenza” attraverso progetti culturali comuni israeliani e palestinesi. Prima di tutto, consideriamo il beneficio dei progetti culturali comuni. Questi progetti comuni perseguiranno un’agenda di giustizia e di uguaglianza o metteranno insieme due parti diseguali – un occupato e un occupante – e promuoveranno un’illusione di simmetria? I progetti che non hanno lo scopo di porre termine all’occupazione e all’oppressione del popolo palestinese da parte di Israele promuovono soltanto la normalizzazione dello status quo. Ecco perché un numero sempre crescente di artisti palestinesi stanno abbandonando queste imprese congiunte, spesso rifiutando di accettare fondi assolutamente necessari e la promessa di fama e successo, perché riconoscono che il prezzo per la partecipazione – la normalizzazione dell’oppressione – è troppo alto per accettare.
In secondo luogo, l’idea che un concerto in Israele possa mettere insieme Palestinesi e Israeliani è assurda, se si considera che a milioni di Palestinesi che vivono sotto il controllo militare israeliano viene impedito di partecipare a causa della politica di apartheid di Israele. Per chiarire, quando i concerti sono tenuti in Israele, i Palestinesi della Riva Occidentale non godono dello stesso accesso dei coloni ebrei che vivono sulla terra confiscata ai Palestinesi nella Riva Occidentale. Infatti, quando gli eventi culturali hanno luogo nei Territori Occupati, per esempio a Ramallah, i Palestinesi di altre enclavi e i Bantustani dei territori occupati o quelli che vivono a Gaza, o i Palestinesi che hanno la cittadinanza israeliana, spesso non hanno la possibilità di partecipare a causa delle centinaia di posti di controllo nei territori occupati e degli intricati sistemi di permesso, tutti progettati per frammentare e controllare la società palestinese.
Il sistema israeliano di apartheid e segregazione tocca ogni aspetto della vita palestinese ed esclude i Palestinesi da molte opportunità che sono offerte agli Ebrei. Questo problema dell’esclusione è stato al centro della controversia al Teatro “Shakespeare’s Globe”, quando artisti internazionali e locali hanno espresso sbigottimento al Globe per aver invitato il teatro nazionale di Israele “Habima” a partecipare al festival “Globe al Globe”. Una lettera di protesta, apparsa su “The Guardian” (29 marzo 2012) e firmata da un impressionante numero di celebrità, compresi il primo direttore artistico dello Shakespeare’s Globe, Mark Rylance, Trevor Griffiths, Sonja Linden e Emma Thompson, sottolineava il fatto che “…invitando Habima il Globe si associava alle politiche di esclusione praticate dallo Stato di Israele e appoggiate dalla sua compagnia teatrale nazionale”.
Gli artisti internazionali hanno una responsabilità etica verso questo problema di esclusione e discriminazione, che è centrale nell’attualità del conflitto. Le reali domande che gli artisti devono porsi sono: Vogliamo promuovere una cultura che ci fa sentire a nostro agio esibendoci davanti a un uditorio selezionato attraverso un privilegio razziale? Dobbiamo legarci con degli artisti ebrei che si sono impegnati con un contratto legale a coprire il sistema israeliano di discriminazione e oppressione? Come possiamo accettare l’affermazione che i concerti o gli eventi culturali possono “affratellare le persone” quando questi eventi spesso operano per la promozione e il sostegno di un sistema esistente di discriminazione ideato per tenere le persone divise?
Proteggere la libertà artistica di espressione
Israele ritiene che il boicottaggio culturale contravviene alla libertà artistica. Mentre è vero che gli artisti israeliani sono liberi di esprimere e condividere la loro arte con il mondo, gli artisti palestinesi fronteggiano sfide tremende con soffocanti restrizioni di viaggio, detenzioni arbitrarie, repressione politica e vari impedimenti che si frappongono tra loro e fare le “prove”, mostrare il loro lavoro o persino svolgere i compiti più semplici, tutte cose che diventano impossibili sotto l’occupazione.
Oggi, gli artisti palestinesi e gli operatori di teatro sono presi in un intricato sistema di oppressione a molti livelli. Prendiamo per esempio il Teatro della Libertà di Jenin e le tremende sfide a cui deve far fronte. Un rapporto di Human Rights Watch di quest’anno (27 luglio 2012) accusava Israele di “calpestare i diritti del personale del Teatro della Libertà”, aggiungendo che “un teatro dovrebbe essere in grado di offrire un’opera critica e provocatoria senza timore che il proprio staff venga arrestato o insultato”. L’affermazione di HRW si riferiva al corrente sistema israeliano di arresti e detenzione arbitraria e chiedeva un’indagine sulle incriminazioni e sui maltrattamenti, sollevando il problema che dall’epoca dell’assassinio del suo direttore e co-fondatore, Juliano Mer-Khamis, nell’aprile 2011, le forze di occupazione israeliane hanno ripetutamente fatto incursioni nel teatro, e picchiato e arrestato arbitrariamente degli impiegati.
L’occupazione e il sistema di discriminazione israeliani violano quotidianamente la libertà di espressione degli artisti palestinesi. Perciò la questione che si pone è: la libertà di espressione degli artisti israeliani finanziati dallo stato dovrebbe ignorare quella dei Palestinesi? C’è ipocrisia nell’affermazione di Israele che è così. Nel 1984 Enuga S. Reddy, allora direttore del Centro contro l’Apartheid delle Nazioni Unite, rispose ad una simile critica al boicottaggio culturale del Sudafrica; quello che segue è un estratto della sua informativa per la stampa pubblicata sul sito della PACBI:
“E’ alquanto strano, a dir poco, che il regime del Sudafrica, il quale nega tutte le libertà… alla maggioranza africana… debba diventare un difensore della libertà degli artisti e degli atleti del mondo. Abbiamo una lista di persone che si sono esibite in Sudafrica perché ignoranti della situazione, o perché attratti dal denaro o per indifferenza nei confronti del razzismo. Devono essere persuasi a smettere di ospitare l’apartheid, a smettere di trarre profitto dai soldi dell’apartheid e a smettere di servire gli scopi propagandistici del regime di apartheid.
Trarre profitto dall’occupazione
Trarre profitto dall’apartheid e servire i suoi scopi di propaganda è precisamente ciò che gli artisti fanno quando attraversano quella che il movimento di solidarietà palestinese ora chiama “la più grande fila di paletti del mondo” (Billet 2012). Prendiamo per esempio il Concerto di Pace di Madonna, durante il quale Madonna disse ai suoi fans allo stadio Ramat Gan di Tel Aviv, “E’ facile dire che voglio la pace nel mondo, ma è un’altra cosa farlo qui”. La sua ricetta per la pace era semplice; disse ai suoi fans che “se ci solleviamo al di sopra dei nostri ego e dei nostri titoli e dei nomi dei nostri paesi e dei nomi delle nostre religioni, se siamo capaci di sollevarci al di sopra di tutto questo, e trattiamo tutti intorno a noi, ciascun essere umano con dignità e rispetto, avremo la pace” (Steinberg e Bronstein, 2012). Ma la verità è che il discorso di pace di Madonna si è perduto per i Palestinesi, ai quali è stato negato l’accesso al “concerto di pace” e che sono rimasti chiusi dietro gli alti muri e i fili spinati di Israele.
Più significativo è il fatto che il cosiddetto “concerto di pace” di Madonna ha avuto successo nel promuovere il turismo in Israele, facendo arrivare 4000 turisti, con alcuni fans che hanno pagato fino a 5000 NIS per biglietti VIP e pacchetti di alloggio (Domke e Halutz 2012). Così, in realtà il concerto è stato importante per Israele, la sua economia, la sua immagine e le sue istituzioni, ma non ha fatto molto a favore della creazione di una reale atmosfera per una pace con giustizia.
Estromettere Israele
Alcuni sostengono che I boicottaggi estromettono Israele ingiustamente e che gli artisti – come ha detto Elton John – non dovrebbero “piluccare” la loro coscienza (Daily Mail, 19 giugno 2010). Alcuni artisti israeliani avvertono un senso di pregiudizio, come espresso dal direttore artistico di Habima, Ilan Ronen:
“Veniamo al Globe con 37 paesi e lingue. E questo è il solo teatro, e la sola lingua, che si dovrebbe boicottare? Va tutto bene in tutti questi altri paesi – nessun problema proprio? Artisti non dovrebbero boicottare altri artisti… Penso, come artista, che questo è sbagliato. Dovremmo dialogare con tutti. Dovremmo discutere e dissentire” (Tonkin 2012).
Ma I Palestinesi hanno tutti i diritti di estromettere Israele a motivo della loro occupazione e oppressione, e di chiedere aiuto e solidarietà alla comunità internazionale in una forma di resistenza nonviolenta e pacifica, basata sui diritti umani e su valori progressisti e liberali. L’affermazione di Ronen che gli artisti israeliani sono ingiustamente estromessi è anche fuorviante. A differenza del boicottaggio accademico e culturale sudafricano, che era realmente un boicottaggio “totale”, BDS non prende di mira singoli accademici israeliani, scrittori o artisti. Gli artisti israeliani sono benvenuti nella cooperazione con gli artisti palestinesi nella misura in cui i progetti su cui lavorano insieme non nascondono l’occupazione israeliana, non ignorano la diseguaglianza e la discriminazione contro i Palestinesi o non lavorano per promuovere il lato più morbido di Israele, mentre lo stato continua nelle sue grossolane violazioni dei diritti umani dei Palestinesi. Gli artisti israeliani che ricevono finanziamenti statali sottostanno di fatto a doveri contrattuali proprio per fare questo, come già illustrato prima.
Il boicottaggio aumenta la consapevolezza
Mentre il dibattito continua, è importante notare che persino quando gli artisti scelgono di non attenersi al boicottaggio, la controversia che circonda le loro esibizioni o la loro partecipazione ad eventi sponsorizzati da Israele a volte è utile in sé e per sé ad educare e ad accrescere la consapevolezza del problema e crea opportunità di discussione e di dialogo costruttivo su quello che succede in Israele/Palestina.
Questo è stato evidente qui a Melbourne quando la febbre del boicottaggio prese il Festival Internazionale del Film di Melbourne nel 2010. All’epoca, i cineasti del film “Figlio di Babilonia”, avendo compreso che il film era sponsorizzato da Israele, tentarono di boicottare l’evento. Il regista del film, Mohamed Al-Daradji, e i produttori Isabelle Stead e Atia Al-Daradji richiesero che il film, una co-produzione palestinese, non venisse proiettato per protesta contro “i crimini illegali contro l’umanità” commessi da Israele (Quinn 2010). Il direttore del Festival, Richard Moore, respinse la richiesta e il film fu programmato e proiettato. Tuttavia, questo incidente creò un’onda di copertura mediatica giacché la maggior parte dei principali organi di comunicazione e decine di blog in tutto il mondo fecero sentire la propria opinione. La controversia aprì le porte a dibattiti e discussioni sulle azioni di Israele e sull’etica del movimento di boicottaggio. Questa è stata una ventata d’aria nuova dato che, prima dell’appello al boicottaggio, Israele era alla ribalta soltanto quando succedeva qualcosa di grosso: spesso un’esplosione suicida, guerre missilistiche o bombardamenti massivi.
Conclusione
L’appello della Società Civile Palestinese per un boicottaggio culturale di Israele è una forma di resistenza legittima e nonviolenta, che ha lo scopo di fare una pressione internazionale sullo Stato di Israele per porre fine alla sua occupazione e alle sue politiche discriminatorie contro il Popolo Palestinese. Né i Palestinesi né gli Israeliani credono che la cultura sia apolitica. L’aggressione di Israele alla cultura palestinese è ben documentata e la presa di mira di figure culturali palestinesi è stata denunciata da vari gruppi di diritti umani. Israele usa la cultura come uno strumento di qualità per promuovere il suo lato più morbido e nascondere le sue violazioni dei diritti umani fondamentali del Popolo Palestinese. I Palestinesi vedono la loro arte e la loro cultura anche attraverso il prisma della loro lotta per la libertà, la giustizia e l’eguaglianza. Dalla cancellazione alla resistenza, la cultura palestinese oggi è un’espressione della storia del Popolo Palestinese in tutte le sue dimensioni, inclusa quella politica. Per i Palestinesi l’arte è una forma di resistenza; il teatro è rivolta politica, la danza è ribellione, e il canto è liberazione.
Opere citate
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“An interview with Idan Raichel.” Australia.il.com. Web. Hebrew. 2008.
Ashrawi, Hanan. “Recognizing Nakba, reaching peace.” Haaretz. Web. 15 May 2012.
Ben-Ami, Yuval. “About Face.” Haaretz. Web. 20 Sept. 2005.
Billet, Alexander . “Madonna sings for apartheid; yet campaign to boycott
Bronner, Ethan. “After
“Call for Academic and Cultural Boycott of
“Cultural Boycott: Statement by Enuga S. Reddy, Director of U.N. Centre Against Apartheid at a Press Briefing (1984).” Palestinian Campaign for the Academic & Cultural Boycott of
Domke, Ronit and Avshalom Halutz. “Madonna draws 4,000 tourists to
“Elton John performs in
“Fact Sheet: Palestinian Culture: 64 Years Under Israeli Assault.” The Institute for
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“Israel/Palestinian Authority: Theatre Group Hit From Both Sides”. Human Rights Watch. News. Web. 27 July 2012.
Jacir, Emily. “Material for a Film: Retracing Wael Zuatier.” Electronic Intifada. Web. 16 Jul. 2007.
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Quinn, Karl. “Festival threatened over
Steinberg, Jessica and Dani Bronstein. “Madonna kept Tel Aviv crowd waiting 'until she got her Gummi Bears’.” The Times of
“The Great Book Robbery.” AlJazeera. Web. 24 May 2012.
Tonkin, Boyd. “Artists should not boycott other artists.” The Independent. Web. 28 May 2012.
Biografia
Samah Sabawi è scrittrice, analista politica, commentatrice, autrice e commediografa. E’ co-autrice del libro Journey to Peace in Palestine (Viaggio verso la Pace in Palestina), e ha scritto e prodotto le opere teatrali Cries from the Land (Pianti dalla Terra) e Three Wishes (Tre Desideri). Sabawi sta attualmente lavorando alla sua terza opera teatrale Tales of a City by the Sea (Racconti di una Città sul Mare) – una storia d’amore ambientata sullo sfondo del bombardamento israeliano di Gaza nel 2008-2009.
Sabawi è consigliere politico della rete politica AlShabaka ed è stata precedentemente difensore pubblico degli Australiani per la Palestina. Tra le sue precedenti esperienze di lavoro figurano il ruolo di Direttore Esecutivo e Portavoce del National Council on Canada Arab Relations (NCCAR) e di Subject Matter Expert (SME) (Esperto Tematico) su vari paesi nel panorama culturale e politico del Medio Oriente per conto del Canadian Foreign Service Institute’s Center for Intercultural Learning (Centro per l’Apprendimento Interculturale dell’Istituto per il Servizio Estero Canadese).
Fonte PACBI
Traduzione di Vincenzo Pezzino