Lettera aperta al direttore di Torino Danza Gigi Cristoforetti

Caro Gigi Cristoforetti,

sappiamo di toccare un nervo sensibile, ma ti invitiamo a non farti complice di un’operazione di lifting, specificamente voluta e finanziata dal governo israeliano per nascondere dietro un’immagine rassicurante i crimini che quello Stato continua a perpetrare contro i legittimi diritti del popolo palestinese. Ti chiediamo di revocare la decisione di ospitare a Moncalieri la Batsheva Dance Company per i motivi che seguono.

Molti colleghi, artisti e intellettuali, sinceramente ostili alle politiche israeliane, disponibili anche a discutere di boicottaggio dei prodotti israeliani, storcono il naso quando si parla di boicottaggio accademico e culturale contro Israele.

Per due motivi. Il primo è che il boicottaggio culturale è in fondo una forma di censura e l’arte viene censurata solo nei sistemi totalitari che ne temono il messaggio di libertà, il secondo che l’arte travalica i confini delle nazioni e dei conflitti e con il suo ideale universale riavvicina gli uomini, alimenta la comprensione reciproca, getta ponti fra le culture.

 

Questi colleghi hanno ragione, in astratto. In concreto non tengono però conto di una caratteristica fondante dell’epoca in cui vivono: il ruolo primario che assume la comunicazione e il rapporto utilitaristico che si insedia fra cultura e spettacolo da una parte e politica dall’altro, fra arte e potere.

Nell’epoca di internet, del villaggio globale e della realtà virtuale, l’evento culturale, al pari di quello sportivo, riveste grande importanza per promuovere l’appeal internazionale di un paese, al fine di intercettare i flussi finanziari e contestualmente promuoverne l’immagine pubblica. Non potrebbe essere diversamente e sicuramente non se ne può prescindere qualora si voglia sinceramente capire il motivo che ha spinto il movimento BDS ad estendere il boicottaggio anche alla cultura e all’arte dello stato ebraico.

Sono passati alcuni secoli da quando Machiavelli suggerì al potere un’accorta gestione della propria immagine pubblica.

Le imprese che investono nell’arte, lo fanno con il legittimo scopo di associare il proprio brand all’opera finanziata, per motivi di prestigio e di immagine (in ultima analisi per incrementare le vendite). Non si comportano diversamente gli Stati.

Israele sa di dover investire molto per presentarsi sotto una veste che faccia ombra alla realtà di un paese che occupa illegalmente la Cisgiordania da oltre quarant’anni, che tiene la Striscia di Gaza sotto assedio militare perpetuo, che scatena blitzkrieg contro il Libano nel 2006 e contro Gaza nel 2009, con migliaia di civili uccisi, che pratica un regime di apartheid nei suoi confini, che nega ai Palestinesi fino all’ultimo metro quadro di territorio, spingendoli ad abbandonare la loro terra, che non ottempera alle risoluzioni dell’ONU e viola ogni legalità internazionale.

Gli attacchi al Libano e a Gaza, con il loro corollario di morte e distruzione, definiti sproporzionati persino da alcuni politici europei vicini a Israele, hanno ricordato all’opinione pubblica mondiale distratta dalle tante guerre e dalla crisi, il permanere in Medioriente di una realtà inaccettabile per gli ideali di giustizia e libertà che ispirano il mondo democratico.

Per contrastare la crescente impopolarità che ha fatto seguito ai due blitzkrieg del 2006 e del 2009, il governo di Israele ha lanciato un’offensiva di pubbliche relazioni a tutto campo chiamata “L’Israele che non ti aspetti”, che si articola  anche in una specifica campagna d’immagine artistico culturale denominata “Marchio Israele”. 

Questa campagna, finanziata con fondi pubblici, ha mobilitato le energie artistiche nazionali disponibili: scrittori, cineasti, musicisti, danzatori, ecc.., allo scopo di veicolare nel mondo un’immagine positiva del paese. Gli artisti israeliani che accettano il finanziamento ministeriale sono tenuti a firmare un contratto che li impegna ad aderire alla campagna lanciata dal governo.

Si tratta di artisti che il Ministero degli Affari Esteri israeliano definisce “i migliori ambasciatori di Israele nel mondo”. Il lavoro della diplomazia consiste proprio nel curare gli interessi della nazione nel mondo e fare accettare agli altri paesi le politiche che il governo in carica di volta in volta ritiene più opportune per raggiungere quello scopo. Per esempio la diplomazia può essere mobilitata per convincere i paesi occidentali sulla necessità dell’apartheid, per ragioni di sicurezza nazionale.

Come si può vedere, nella situazione specifica non è il contenuto, il messaggio dell’opera artistica, che può essere anche altissimo e che rispettiamo, a decidere del suo significato politico, bensì il contesto in cui agisce. O, per lo meno, quest’ultimo fa aggio sull’efficacia del messaggio artistico considerato, per così dire, in vitro.

Non è l’arte, dunque, che si intende boicottare, tanto meno i colleghi israeliani, bensì il significato politico che nel contesto e nello specifico momento assume. 

Per finire, due parole su una delle obiezioni più ricorrenti contro il boicottaggio accademico culturale, quella fatta propria da Umberto Eco, che è un’obiezione di apparente buon senso. Perché boicottare solo Israele, ci si chiede, e la Cina, allora, con il suo Tibet? E la Russia con la sua Cecenia? Ecc.. Bisognerebbe boicottare anche loro, e mezzo mondo, ma così facendo si finirebbe con l’erigere muri fra le culture rendendo il dialogo ancor più difficile.

Meglio non farne niente, a parte, beninteso l’embargo all’Irak di Saddam dopo Desert storm, e pazienza per le centinaia di migliaia di vittime civili, o quello contro la Serbia di Milosevic o l’Iran di Ahmadinejad. 

Eppure c’è una differenza radicale fra Israele e per esempio la Cina, così evidente da sorprendere che non venga immediatamente colta da un fine intellettuale come Eco.

La Cina non è un paese democratico. Possiamo definire “normale” che un paese totalitario non rispetti i valori di libertà e autodeterminazione dei popoli. L’anomalia consiste nel fatto che Israele è invece un paese che si definisce democratico, e che come tale vuol essere e viene accettato dal mondo libero, di cui fa parte a tutti gli effetti.

Non faremo la guerra alla Cina, si spera, per imporre l’autodeterminazione del popolo tibetano (che comunque non è sottoposto ad apartheid come gli arabi israeliani) ma possiamo e dobbiamo fare tutte le pressioni necessarie, rigorosamente non violente, per pretendere che un paese democratico (o che vuol essere tale) aderisca e applichi i principi cui dice di ispirarsi, a cominciare dall’abolizione dell’apartheid, pena l’espulsione ideale dal mondo libero e la cancellazione degli accordi commerciali e militari vigenti.

L’arcivescovo sudafricano Desmond Tutu, insieme a Nelson Mandela uno degli artefici del Sud Africa post apartheid, rivolgendosi a chi si dichiarava neutrale rispetto al conflitto civile che contrapponeva la minoranza bianca alla maggioranza nera in quel paese, disse: “Se siete neutrali in situazioni di ingiustizia, avete scelto la parte dell’oppressore”.

Ecco, con questa lettera aperta ti invitiamo a non essere neutrale ma a prenderti pubblicamente la tua responsabilità politica e intellettuale.

Antonino Salerno (musicista)
Lucia Citterio (danzatrice)
Marco Gobetti (attore, regista)
Emanuele Cisi (musicista)
Enzo Zirilli (musicista)
Maurizio Redegoso Kharitian (musicista)
Francesco Varano (attore, regista)
Aldo Mella (musicista)
Riccardo Ruggeri (musicista)
Manuela Celestino (attrice)
Claudio Lodati (musicista)
Gemma Nocera (insegnante, scrittrice)
Davide Liberti (musicista)