È il primo articolo della figlia di Omar Barghouti, Nai, che ha 19 anni e studia musica jazz a Bloomimgton, Indiana (USA). È stato pubblicato il 17 ottobre 2015 sul quotidiano online IndyStar col titolo “Una palestinese: Continuerò a cantare e a fare ciò che ho cominciato”
di Nai Barghouti
Le mie pagine Facebook sono piene di video terrificanti. Fadi, un giovane palestinese di 19 anni è inseguito a Gerusalemme da un’orda di coloni israeliani che lo vogliono linciare e gridano ‘a morte’, finché dei soldati israeliani lo uccidono mettendo in atto una tipica esecuzione sommaria. Ahmad, un ragazzo palestinese di 13 anni è colpito dalla polizia di Israele in un insediamento israeliano illegale vicino a Gerusalemme. Giace sanguinante a terra, gridando di dolore mentre i passanti gli lanciano insulti e uno dice al poliziotto di “tirargli un colpo in testa.” Una giovane palestinese, cittadina israeliana, è stesa faccia a terra mentre un Israeliano le torce un braccio dietro la schiena e i passanti le gridano oscenità. Le cure mediche sono deliberatamente ritardate nella maggior parte dei casi. Ma sarebbero troppi i casi da descrivere.
A guardare i video e leggere le notizie mi vengono i brividi e mi sento prostrata e disperata. Ci potrei benissimo essere io in uno di quei video: ho 19 anni come Fadi e sono palestinese. Ma ora sto guardando da lontano, dalla mia stanza a Bloomington, Indiana, dove studio musica jazz.
E allora canto.
Ma, a cantare, mi sento come se sfuggissi al mio dovere di stare a fianco del mio popolo in un momento come questo, in cui i leader di Israele invitano ad armarsi ogni potenziale vigilante, compresi i coloni che occupano illegalmente la nostra terra. Allora cado in un lungo silenzio che mi pare di non poter più rompere; ma devo finirlo questo silenzio, prima che sia lui a finirmi.
Un flashback dal 2002 interrompe il mio senso di impotenza. Avevo 5 anni, nell’appartamento della mia famiglia in Ramallah occupata, e alla porta c’erano molti soldati israeliani che gridavano a mio padre e gli puntavano le armi contro. Lui rispose gridando “Non prenderete la nostra casa finché siamo vivi”. Era un’invasione durante la seconda intifada: erano venuti per occupare il nostro appartamento e cacciarci via. “Siamo disarmati, ma non dei nostri diritti e della nostra dignità,” disse mio padre. Non capii, allora, cosa voleva dire.
Le mie ginocchia cominciarono a tremare involontariamente, e pensai di essermi ammalata. La mamma mi spiegò che era per la paura e mi invitò ad andare davanti al grande soldato con cui mio padre si stava confrontando e guardarlo fisso negli occhi. Ero incerta all’inizio, pensavo che la mamma fosse impazzita: “Ma il fucile del soldato è più grande di me!”, esclamai.
Dopo un po’ di esitazione, alla fine mi avvicinai lentamente al grande soldato, con le ginocchia che ballavano al ritmo del cuore che galoppava. Alzai la testa e lo guardai fisso negli occhi. Mi vide e cercò di distogliere lo sguardo, ma io continuai a fissarlo. Abbassò gli occhi, non so se per imbarazzo o per vergogna. Dissi trionfante “Sì!” e le mie ginocchia smisero di ballare. Quel giorno imparai che un atteggiamento di sfida dignitosa funziona come un incantesimo contro le ginocchia che ballano.
Quel breve momento di incantesimo finì presto. Noi Palestinesi sappiamo conservare la nostra sprezzante dignità nel combattere una schiacciante potenza militare che sta prendendo con la forza la nostra terra, ma questa dignità non basta a proteggere il proprietario a cui demoliscono la casa. Non protegge la famiglia palestinese che salta in aria a Gaza nel mezzo della notte e non protegge il bambino che va a scuola al mattino e viene attaccato, lontano dalle fotocamere dei giornalisti, da coloni israeliani fanatici.
Ma rimane l’ovvia domanda: cosa ci faccio io qui, a studiare jazz, mentre Gerusalemme, la città dove sono nata, è tutta in fiamme per resistere alla brutale occupazione di Israele? A che serve la musica di fronte a tutta questa oppressione trasmessa in TV e di fronte all’umiliazione senza fine che il mio popolo subisce? Non voglio fare jazz, voglio solo andare a Gerusalemme, di cui sono parte.
A un certo punto volevo andare a Gerusalemme per cantare. Ma non fu una cosa facile.
“Via di qui! Tu non puoi entrare a Gerusalemme,” disse la giovane e arrogante soldatessa al checkpoint di Kalandia che separa Ramallah da Gerusalemme occupata, dopo aver visto una copia del mio certificato di nascita. Avevo 13 anni e non potevo avere un regolare documento di identità approvato da Israele. Le ho gridato “Sono nata a Gerusalemme perdio! Come mi puoi respingere?” Ma lei insistette che doveva vedere l’originale del mio certificato di nascita.
Io volevo assistere a una lezione di musica al Conservatorio Nazionale di Musica Edward Said. Come avrebbe fatto qualunque giovane arrabbiato, non accettavo che la risposta fosse un no. La soldatessa cominciò ad essere aggressiva. Allora chiamai mio padre sul cellulare e gli raccontai la storia mentre strillavo con la soldatessa. Mio padre mi pregò di smettere di gridare e di incamminarmi rapidamente verso il campo rifugiati di Kalandia prima che mi facessero del male. “A loro non importa che tu sia una bambina, credimi” disse con voce incrinata.
Chiesi a una donna palestinese come dovevo fare per andare dal checkpoint a Kalandia, e mi allontanai rapidamente. Mi nascosi in un negozio e aspettai che mio padre venisse a prendermi. Mi sembrarono ore di attesa, ma in realtà passarono solo 20 minuti. Entrai in macchina e tutte le lacrime che avevo orgogliosamente trattenuto uscirono fuori.
“Torniamo a Ramallah?” mi chiese mio padre. “Non mi sembra che in questo momento tu sia nelle migliori condizioni per prendere una lezione di musica.” Senza nemmeno pensarci, dissi: “Questo è quello che loro vorrebbero! Vorrebbero che mi arrendessi, tornassi a casa e diventassi una vittima. Invece andrò a Gerusalemme, malgrado loro. Continuerò a cantare e a fare quello che ho cominciato. Questa è la mia forma di resistenza alla loro oppressione. Non mi piegheranno!”
La musica è il mio modo di fare resistenza culturale. Di stare in silenzio non se ne parla proprio. Niente farebbe più piacere ai nostri oppressori israeliani che vederci tutti in silenzio, vedere che li accettiamo come i nostri padroni con tutto il loro sistema legale razzista, che accettiamo di esser messi sotto chiave, mentre loro guardano dall’altra parte quando soldati e coloni ci depredano, ci attaccano e ci uccidono impunemente.
Allora deve essere per questo che ora sono qui. Per imparare ad avere una voce ancora più forte, per non dire più intonata, nello sfidare i loro tentativi di disumanizzarci. So che devo cantare, così come so di sicuro che un giorno i Palestinesi saranno liberi.
Fonte: Indystar
Traduzione di Donato Cioli per AssoPace Palestina