“L’occupazione è una forma di esportazione: Israele vende e la comunità internazionale compra”. Il ruolo di Europa e Usa nei finanziamenti internazionali, e quello della cooperazione (“che dovrebbe fare come le Freedom Flottille”). La seconda parte dell’intervista all’economista israeliano Shir Hever.
di Stefano Nanni
SECONDA PARTE - “GLI AIUTI INTERNAZIONALI E LA COOPERAZIONE”
Dopo la lunga intervista con Osservatorio Iraq sulle prossime elezioni politiche, previste in Israele alla fine di gennaio, l’economista israeliano Shir Hever* risponde ad alcune domande sul sistema degli aiuti internazionali in Israele e Palestina, gli effetti dell’occupazione sull’economia israeliana e la cooperazione.
La realtà del protrarsi dell’occupazione israeliana sui Territori Palestinesi si aggrava giorno dopo giorno, mentre favorisce il progetto degli insediamenti. Nella pratica, chi altri trae vantaggio dall’occupazione?
Certamente la realtà palestinese sotto occupazione è molto seria. C’è uno stato di crisi anche economica, con l’ANP che si trova in grave emergenza finanziaria, e rischia di collassare. Anche nella Striscia di Gaza, nonostante l’ampliamento delle aree adibite alla pesca, la situazione è altrettanto difficile.
Affermare che Israele stia solo guadagnando da tutto questo sarebbe un errore, perché paga in realtà un prezzo molto alto per l’occupazione in termini economici: il costo degli insediamenti è altissimo, è un onere molto pesante sull’economia. Israele sicuramente trae alcuni vantaggi, ma la maggior parte dei cittadini soffre economicamente a causa del protrarsi dell’occupazione.
Le decisioni politiche tengono conto di ciò che fa guadagnare di più: ci sono compagnie che traggono grande profitto dall’occupazione, dal conflitto, dagli attacchi su Gaza, e che ad esempio hanno beneficiato dall’operazione Pillar of Cloud.
Si tratta di compagnie specializzate nel settore della sicurezza – il cosiddetto progetto ‘Home Land Security’ –, nella produzione di armi e droni, che hanno contribuito al sistema di difesa Iron Dome, ideato per fermare i razzi provenienti da Gaza.
Queste compagnie stanno aiutando Israele a trasformarsi in una sorta di ‘stato fortezza’: un paese che rifiuta di negoziare con i propri vicini, di fare qualsiasi compromesso per riconoscere i diritti umani di persone che vivono sulla sua area, che continua a occupare e attaccare, ma che allo stesso tempo è capace di vivere al suo interno una vita normale.
Questo è lo “stato fortezza” che Israele sta cercando di vendere al mondo. Anche altri paesi ricchi, in altre zone del mondo, stanno sviluppando una simile struttura di ‘comunità-ghetto’, in cui vengono costruiti sofisticati sistemi di muri, camere di sorveglianza e anonimi automezzi per reprimere ogni tipo di resistenza. In cui la vita scorre mentre una parte della popolazione viene sfruttata senza potersi opporre.
Di quali paesi sta parlando?
Dei grandi clienti della tecnologia venduta dalle compagnie israeliane, che operano in Israele ma che fanno ottimi profitti commerciando i propri prodotti negli Stati Uniti o in Europa, anche se le vendite maggiori avvengono laddove le disuguaglianze economiche sono più importanti.
I più grandi clienti delle imprese produttrici di armi israeliane, operanti nell’Home Land Security, sono India, Brasile e gli stessi Stati Uniti. E’ qui che si vedono davvero queste ‘comunità ghetto’, in cui corporazioni molto ricche e potenti operano scontrandosi con l’indignazione e la resistenza pubblica, che possono tranquillamente ignorare facendo uso di queste tecnologie.
Di conseguenza possiamo considerare il recente attacco su Gaza come una promozione, una campagna di marketing che ha reso queste compagnie più capaci di vendere i propri prodotti.
Alcuni paesi avanzati, in particolare quelli europei, sembrano fare maggiori pressioni su Israele in seguito all’approvazione di nuove espansioni degli insediamenti e alla decisione di trattenere i fondi destinati ai palestinesi. Secondo lei si tratta soltanto di retorica o è qualcosa di più?
Guardi, con l’attacco del 2008-2009 – l’operazione Cast Lead – abbiamo assistito ad un grande gap tra la reazione dei governi e quella della comunità internazionale a livello di società civile. I governi hanno agito in modo vergognoso: hanno sostenuto Israele, non gli hanno imposto alcuna sanzione e non gli hanno chiesto di rispondere di nessuna responsabilità.
Ma i cittadini sono scesi in strada per protestare, hanno organizzato manifestazioni di massa e si sono uniti al movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni, ndr) per boicottare Israele.
Purtroppo osserviamo ancora questa disconnessione tra ciò che succede a livello di autorità e di società civile. Ma credo che non potrà continuare per sempre, perché dopotutto i giovani di oggi, che protestano nelle strade, un giorno potranno diventare i politici dei nuovi governi.
C’è certamente una maggiore pressione su Israele e soprattutto un sentimento crescente di preoccupazione al suo interno per le continue critiche della comunità internazionale. Il problema è come affrontare questa situazione: credo che molti israeliani abbiano la sensazione di non poter fare nulla.
Ecco perché persone come Netanyahu sono capaci di promuovere l’idea secondo cui, se noi israeliani facciamo vedere quanto siamo forti, quanto siamo menefreghisti, allora penseremo davvero che le condanne delle Nazioni Unite, ad esempio, non servono a nulla.
Questo è il modo in cui mostriamo al mondo che non ci interessa nulla di quello che pensa di noi.
E funziona?
Sì, funziona. Funziona perché si ottengono voti in questo modo. D’altra parte però vediamo molti israeliani preoccupati per quello che sta accadendo nella comunità internazionale: per quanto ancora potranno continuare ad essere accettati nel mondo occidentale e sviluppato? È una questione molto delicata.
Per esempio, Israele è stato ammesso nell’OECD nel 2010, e all’epoca fu considerato davvero un buon traguardo: fu presentato come un messaggio di legittimazione: Israele veniva considerato parte del mondo occidentale. È lì che molti israeliani vogliono restare.
Oltre ad essere importanti partner economici per Israele, gli Stati Uniti e l’Unione Europea sono anche i maggiori finanziatori degli aiuti internazionali ai palestinesi. Come è possibile questa situazione, e cosa significa nella pratica?
Quello che dobbiamo capire e analizzare sono gli interessi dei donatori: i palestinesi sono tra i maggiori beneficiari di aiuti internazionali al mondo, ma gli aiuti che ricevono non dipendono dal fatto che la comunità internazionale è attenta a loro o li ama particolarmente. È una questione di interessi economici.
Attualmente gli Stati Uniti forniscono più aiuti a Israele che non ai palestinesi, e per la maggior parte si tratta di armamenti, perché hanno interessi molto chiari a vendere armi nella regione. Ecco perché si oppongono alla fine dell’occupazione e hanno avuto un ruolo centrale nel sostenere le politiche israeliane nel mantenere l’occupazione e impedire la pace.
L’Unione Europea invece ha interessi diversi: è il maggior partner commerciale di Israele, ma naturalmente ha interessi in tutta la regione. L’Europa vende per la maggior parte prodotti diversi dagli armamenti, dunque dal suo punto di vista la fine dell’occupazione rappresenta un interesse commerciale.
Sono convinti che sostenere l’Autorità Palestinese con i soldi possa portare alla costruzione di uno stato e alla fine del conflitto. Ma c’è un problema con questa strategia: da una parte sono disposti a dare soldi, ma dall’altra non vogliono fare alcun tipo di pressione per rendere Israele responsabile dei crimini che commette.
Con una politica di questo tipo Tel Aviv non fa che adattarsi, incoraggiando l’Europa a continuare nelle donazioni, perché è un meccanismo che allo stato attuale fa più gioco all’economia israeliana che non a quella palestinese.
Fondamentalmente, Israele sta rubando soldi.
E’ per questo che lei ha recentemente affermato che “tutti i finanziamenti internazionali destinati alla cooperazione con Israele e Palestina stanno solo alimentando l’occupazione”? Può spiegarlo meglio?
Prima di tutto, i donatori sono costretti a muoversi in base alle restrizioni imposte da Israele, che fa pressione perché siano utilizzate soltanto le sue compagnie di trasporto per trasferire i beni ai palestinesi.
Inoltre, a causa del regime di tassazione imposto da Israele, è più economico comprare dalle compagnie israeliane: la maggior parte del cibo e delle medicine fornite ai palestinesi sono attualmente acquistate in Israele. E, cosa più importante, dal momento che i palestinesi non hanno una loro moneta, i finanziatori sono costretti a convertire i loro soldi in moneta israeliana.
Questo significa che l’occupazione è una forma di export per Israele. Israele sta esportando l’occupazione, e la comunità internazionale la sta comprando.
È una situazione che crea reddito per le compagnie israeliane, che forniscono cibo, trasporti e medicine ai palestinesi, mentre sarebbe diretta responsabilità di Israele (secondo il diritto internazionale, in quanto potenza occupante, ndr) assicurarsi che i palestinesi abbiano il necessario per sopravvivere.
Israele non sta pagando per questo, è la comunità internazionale a farlo. Ecco perché gli aiuti, invece di sostenere i palestinesi, sostengono in effetti l’occupazione.
Se Israele trae profitto dalla cooperazione internazionale con i palestinesi, quale altra cooperazione è possibile? Ritiene che sarebbe meglio non farne affatto, in assenza di decisioni politiche importanti?
Non possiamo ignorare il fatto che ci siano enormi problemi di dipendenza dagli aiuti. Dal momento che Israele impedisce ai palestinesi di lavorare, di coltivare la propria terra per il cibo, esiste un problema reale. Se gli aiuti venissero interrotti la gente non avrebbe niente da mangiare. Non possiamo ignorare questo aspetto e dire semplicemente ‘ok, fermiamo la cooperazione e smettiamo di pagare per l’occupazione, così Israele dovrà fare qualcosa’. Perché in attesa di quel momento avremmo una crisi umanitaria di massa nei Territori Palestinesi.
Ma credo che i donatori non possano continuare a dire che gli aiuti o la cooperazione non sono una questione politica. È semplicemente inaccettabile.
Non possono dire ‘siamo neutrali e forniamo solo assistenza, ma non prendiamo posizioni politiche”, perché le stanno prendendo, stanno sostenendo l’occupazione e devono essere consapevoli che questi aiuti vengono elargiti in un contesto fortemente politico. Dovrebbero attivarsi e trovare il modo di evitare di lavorare secondo i limiti imposti da Israele. Non è facile, ma nemmeno impossibile.
In che modo?
Abbiamo l’esempio del movimento Freedom Flottilla – navi per Gaza, che lavora esattamente come dovrebbe fare la comunità internazionale.
Prima di tutto chiedono direttamente ai palestinesi di cosa hanno bisogno, invece di domandare a Israele cosa è permesso portare. In secondo luogo acquistano tutto il necessario da compagnie internazionali e non israeliane, così possono evitare di usare la moneta di Tel Aviv. Terzo, mandano i prodotti direttamente ai palestinesi senza passare dai confini israeliani, senza pagare tasse doganali a Israele o usare le sue compagnie di trasporto.
È la dimostrazione che farlo è possibile, ecco perché Israele vi si oppone con tanta forza, mandando l’esercito a fermare le navi.
Questo dimostra solo che è consapevole di quanto possano essere efficaci questi aiuti: se anche le Nazioni Unite, la Croce Rossa Internazionale e altre ONG internazionali lavorassero come il movimentoFreedom Flottilla, se rifiutassero di lavorare con le autorità israeliane, la situazione degli aiuti potrebbe cambiare.
Possiamo quindi immaginare un tipo di cooperazione come quella delle Flottille, ma condotta anche dagli Stati?
Naturalmente. Andare a Gaza via mare resta un fatto soprattutto simbolico, ma se si vogliono portare aiuti ad esempio in Cisgiordania, che non ha una costa, è sufficiente passare per la Giordania invece che per Israele, dicendo chiaramente che ‘ci rifiutiamo di pagare tasse a Israele, ci stiamo rifiutando di passare attraverso i controlli di frontiera israeliani, stiamo inviando questi aiuti soltanto ai palestinesi e non permetteremo ai soldati israeliani di ispezionare i nostri camion’.
La cosa più importante per la cooperazione è lavorare in modo diretto con i Palestinesi, bypassando Israele.
*Shir Hever è un economista israeliano, ricercatore presso l’Alternative Information Center (AIC), organizzazione israelo-palestinese che promuove i diritti umani, con sede a Beit-Sahour, Betlemme. Studiando gli aspetti economici dell’occupazione nei Territori Palestinesi, i suoi principali argomenti di studio sono gli aiuti internazionali, gli effetti dell’occupazione sull’economia israeliana, le campagne di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS) contro Israele. Ha collaborato con diverse testate online, tra cui Electronic Intifada e JNews, ed è spesso ospite di Università e centri di ricerca internazionali.