Lettera di risposta di Ghassan Hage all’invito a tenere il discorso di apertura in occasione della conferenza dell’Israeli Anthropological Association .
Caro …
mi ci è voluto un po’ di tempo per scrivere questa lettera che può risultare un po’ formale. Non era questa la mia intenzione, ma il fatto è che voglio essere il più chiaro possibile circa le mie ragioni.
Ho sinceramente apprezzato il tuo invito a tenere il discorso di apertura in occasione della conferenza dell’Israeli Anthropological Association. E mi rendo conto che si tratta di un invito fatto in buona fede, che scaturisce dal tuo desiderio di aprire l’associazione a voci che sono fortemente critiche verso Israele come ce ne sono oggi nel mondo e che, come dici tu, non sono abbastanza sentite.
Temo di dover rifiutare l’invito. Non posso dire che sono felicissimo di declinarlo. Come ti ho già detto, per temperamento sono incline e disponibile al dialogo sempre, ma ho pensato molto su che cosa la mia presenza avrebbe comportato e mi sono convinto che alla fine il risultato sarebbe negativo e non positivo. Ma nel pensare a cosa sia positivo e cosa negativo penso a come questo incida sulla lotta del popolo palestinese per liberarsi dal colonialismo e non alla lotta portata avanti da antropologi israeliani per rendere la loro società più aperta e ricettiva.
E’ un errore equiparare le due cose, anche se occasionalmente potrebbero coincidere in termini di interesse.
Probabilmente non vorrai stare a sentire il completo sfogo delle mie ragioni. E potresti anche pensare di avere già sentito tutto prima. Sinceramente riconosco che vuoi il dialogo e quindi voglio dirti subito perché – nonostante sia anch’io tutto per il dialogo – non sono per il dialogo come lo proponi tu, pur essendo più che lusingato per quello che dici del mio lavoro e riconoscente del fatto che tu abbia pensato a me come possibile candidato a tenere il discorso di apertura.
Gli antropologi israeliani devono affrontare una serie di situazioni simili a quelle che abbiamo di fronte in ambienti coloniali in altre colonie come l’Australia, la Nuova Zelanda, il Canada e gli Stati Uniti. Siamo tutti antropologi che lavorano in uno spazio sociale che ormai da sempre succhia come un vampiro una popolazione nativa dissanguata e con violenza (legalmente e illegalmente) blocca le sue rivendicazioni alla terra.
Voi israeliani dovete affrontare una situazione extra, visto che la vostra storia di vampirismo è relativamente breve e nuova e che la popolazione che avete colonizzato è ancora relativamente forte e ancora rivendica la propria sovranità nazionale e autonomia sulla terra. Le forze dominanti nella vostra società aspirano a giungere ad una situazione in cui questo non sia più dato. Mirano a cancellare l’esistenza dei palestinesi come aventi diritto alla sovranità e li sottopone ad un’orrenda disumana violenza di un livello, intensità e durata che è al di là dell’accettabile. Questo è ciò che il vostro Baruch Kimmerling ha finemente definito politicidio.
Quindi per me il punto di partenza di ogni antropologia di decolonizzazione è quello di essere anti-politicida. Deve riguardare il modo per fermare questa violenza orrenda e come dare presenza e potere politico e sociale al colonizzato. Non si tratta di fare l’antropologo della società colonizzatrice più liberale, dalla mentalità aperta e capace di affrontare la disuguaglianza.
Questo mi sembra tutto quello che potrei ottenere presentando un discorso di apertura per la vostra organizzazione: alcuni conservatori andrebbero su tutte le furie. Ma solo perché sono stupidi.
Poi ci sarebbero i liberali intelligenti che se ne andrebbero dicendo: “che emozione. Ho sentito un intellettuale realmente e autenticamente antisionista con delle opinioni con cui veramente potersi confrontare e per giunta con un background arabo. E’ stata un’esperienza davvero arricchente, quanto sono di mentalità aperta e fantastico.”
Questo non aiuta e non ha mai aiutato il colonizzato. Ci sarebbe poi una minoranza che invece comprenderebbe appieno questi limiti e che veramente desidera avanzare verso il territorio dell’antropologia di decolonizzazione. E’ con quella che mi piacerebbe lavorare, ma non credo che l’IAA sia la cornice migliore per farlo.
Ho molte idee di quello che un dialogo verso la creazione di un’antropologia israeliana di decolonizzazione comporterebbe. La prima fra tutte è che gli antropologi israeliani dovrebbero rifiutarsi di appartenere ad una organizzazione che simbolicamente non abbia “Palestina” nel suo nome o di appartenere ad una organizzazione che accetta tra le sue fila antropologi provenienti dagli insediamenti. Se fossi stato invitato in Israele da parte di un’organizzazione che si definisce Anthropological association of Israel/Palestine, sarebbe già un buon inizio. Vedrei questo come il segnale ad un’aspirazione ad affrontare le tendenze mono-nazionale mono-religiosa e eliminazionista dello Stato.
Sarei felice di incontrare antropologi israeliani che aspirano a una tale politica di decolonizzazione. E sarebbe un piacere per me discutere con loro le possibili strategie. Dato che i numeri nel prossimo futuro saranno piccoli forse potremmo incontrarci in un caffè palestinese e invitare alcuni antropologi palestinesi locali a partecipare a un dialogo su direzioni non-coloniali radicalmente diverse. Sarei veramente felice di partecipare a qualcosa del genere.
Questa situazione in realtà mi fa pensare un po’ alla politica della discriminazione positiva. Quando stai mirando a un cambiamento strutturale, la tua politica può essere incommensurabile nei confronti di interessi individuali e ingiusta con persone veramente belle. Cioè, puoi mirare ad avere più donne dirigenti e finire per discriminare un tipo femminista veramente affascinante. Allo stesso modo voglio partecipare a dialoghi che aprano lo spazio a più antropologi palestinesi che siano soggetti e attori nell’elaborare il futuro dell’antropologia in Israele/Palestina, anche se per questo devo rinunciare a interagire con un eccellente, dalla mentalità aperta e affascinante antropologo israeliano.
Auguri,
Ghassan
Fonte: Anthro Boycott
Traduzione di Simonetta Lambertini per Invictapalestina