Lo scorso gennaio alcune centinaia di docenti delle università italiane avevano chiesto la cessazione delle collaborazioni tra gli atenei italiani e quelli israeliani, a partire dal Politecnico di Haifa. Alle pesanti accuse mosse contro di loro (tra cui quella di essere antisemiti), hanno risposto su Nena News quattro firmatari
di Riccardo Bellofiore, Joseph Halevi, Cinzia Nachira, Giovanna Vertova
La pubblicazione di un appello, sottoscritto da alcune centinaia di docenti delle università italiane, in cui è annunciata la decisione di rinunciare alla collaborazione con il Politecnico di Haifa, Technion, ha scatenato – come era prevedibile – molte reazioni e critiche severe ai firmatari. Rispondere nel dettaglio a tutte queste accuse non è possibile, ma è necessario, invece, farlo a quelle più pesanti.
La più diffusa e ripetuta ossessivamente è quella di antisemitismo, anche se tra i firmatari vi sono numerose persone di origine ebraica. Non è una novità che le critiche verso lo Stato di Israele, o segmenti della società israeliana come in questo caso, vengano sbrigativamente – non solo dal governo israeliano e dalle sue istituzioni – liquidate come “nuove forme di antisemitismo” che secondo questa tesi al giorno d’oggi si maschererebbero da “antisionismo”. Questa tesi è particolarmente contraddittoria, oltre che falsa, perché si scontra con la volontà espressa tanto dallo Stato di Israele e le sue leadership politiche, quanto dai loro sostenitori, di essere un Paese come gli altri, che aspira alla “normalità”; perché allora non è criticabile?
Sicuramente, l’antisemitismo come forma di razzismo non è scomparso ed è da combattere sotto ogni sua forma. Ma è altrettanto vero che tacitare ogni critica, anche la più velata, con l’accusa di antisemitismo è ridicolo ed altrettanto scandaloso, ma ciò non implica assolvere lo Stato di Israele dalle sue responsabilità nel conflitto contro i palestinesi. Ancora oggi, dopo 69 anni, Israele non ammette le sue responsabilità nella Nakba (“catastrofe” , in arabo), ossia l’espulsione di massa dei palestinesi, avvenuta tra il 1947 e il 1949, da parte delle truppe sioniste, successivamente divenute israeliane all’indomani della proclamazione dello Stato il 15 maggio 1948. Il riconoscimento delle responsabilità storiche non è né un dettaglio né un lusso, è una necessità vitale perché si possa avviare un vero ed equo mutuo riconoscimento.
Non si tratta di fare paragoni, impossibili e infondati, tra la Shoah e la Nakba. Sono due catastrofi avvenute in periodi e in condizioni diverse tra loro (anche gli esiti sono incommensurabilmente diversi e non paragonabili), tuttavia non si può non ammettere che senza la prima, la seconda sarebbe stata impossibile. In altri termini, il popolo palestinese, incolpevole, ha pagato il prezzo più alto per ciò che prima, durante e dopo la seconda guerra mondiale è avvenuto sul suolo europeo. Lo Stato di Israele, piaccia o meno, è inevitabilmente il frutto di questa dinamica e in quanto tale non poteva non essere un progetto coloniale. Quel progetto coloniale, concepito in Europa già alla fine del XIX secolo, ha determinato e condizionato tutti gli sviluppi successivi.
A tutto questo occorre aggiungere che la particolarità del progetto sionista di uno Stato in Palestina ha in sé un’enorme contraddizione: conciliare occupazione militare, spoliazione e apartheid con la volontà di essere uno Stato democratico. Anzi, come sostiene l’establishment politico e culturale israeliano: l’unica democrazia del Vicino Oriente. In un certo senso, proprio questa contraddizione rende “normale” lo Stato di Israele e non la negazione di questa. È altrettanto vero che ormai fin dagli anni ottanta del secolo scorso è caduto un altro mito, assai diffuso fino ad allora, che tendeva a rappresentare la società israeliana come un blocco monolitico interamente in accordo con le politiche dei governi che si sono succeduti nel Paese. Si potrebbero citare moltissimi studiosi, giornalisti ed anche esponenti delle istituzioni politiche e perfino militari che hanno preso pubblicamente posizioni critiche non solo su scelte specifiche, ma che attraverso i loro studi e le loro dichiarazioni hanno, di fatto, rimesso in discussione il progetto coloniale che sottende ancora oggi alla costruzione statuale israeliana. L’antisemitismo si sarebbe diffuso anche tra tutti costoro? Ci sembra assai difficile sostenere questa affermazione paradossale.
Ovviamente, il rettore dell’Università Technion si è detto sorpreso e sconcertato dal fatto che anche in Italia, la critica verso Israele abbia assunto delle forme tanto decise; ha cercato di sostenere l’inattendibilità della collaborazione dell’ateneo da lui diretto con l’industria militare, elencando una serie di progetti che solo apparentemente non hanno nulla che vedere con attività legate al proseguimento e al consolidamento dell’occupazione, come quelli dello sfruttamento delle risorse idriche. Ma, bisogna ricordarlo, proprio la depredazione di queste risorse è stata una delle prime forme di espropriazione dei palestinesi, che in questo modo sono stati costretti (tra quelli che non erano stati espulsi precedentemente manu militari) all’esilio perché nelle loro città e nei loro villaggi era impossibile vivere. Una delle prime iniziative israeliane, pochi anni dopo la proclamazione dello Stato, è stata quella della deviazione del fiume Giordano, per assicurare al neonato Stato di Israele le risorse idriche necessarie al suo sviluppo economico e sociale.
Un altro argomento del rettore israeliano è stato quello della presenza nel Technion di studenti palestinesi che dovrebbero diventare il 20% del corpus studentesco. Questo dato, a suo dire, smentirebbe l’esistenza delle politiche di apartheid attuate da Israele verso i palestinesi israeliani (ormai il 20% della popolazione israeliana), come contro il resto della popolazione palestinese della Cisgiordania (per motivi ovvi, ma – per una persona nella sua posizione – inconfessabili, tace sulla Striscia di Gaza, sotto assedio fin dal 2006). È sufficiente, anche solo superficialmente, sfogliare il corpus legislativo e amministrativo riguardo ai diritti, in tutti gli ambiti, concessi ai palestinesi di Israele e a quelli della Cisgiordania e della Striscia di Gaza (dall’edilizia, all’accesso al diritto allo studio e al lavoro, o alla sanità pubblica) per smentire tale tesi. Inoltre, la politica “inclusiva” dei giovani palestinesi nelle università israeliane, in definitiva, è un’arma a doppio taglio. Perché dopo la laurea i giovani palestinesi non potranno mai restare in Israele, dove non possono accedere al lavoro, o peggio rientrare in Cisgiordania (quelli della Striscia di Gaza ormai da dieci lunghi anni non possono più muoversi da quella che è la più grande prigione a cielo aperto del Vicino Oriente), quindi sono costretti a emigrare per poter avere anche solo la minima speranza di poter mettere a frutto i loro anni di studio e i loro titoli.
Da questo punto di vista, è assai discutibile la tesi dei rettori italiani che a una sola voce hanno sostenuto come i firmatari dell’appello “Stop-Technion”, con il loro gesto, metterebbero in discussione “la libertà accademica” e contemporaneamente dimenticherebbero che la scienza è neutrale, al di sopra delle diatribe politiche e delle scelte conseguenti. Onestamente, è fin troppo semplice ricordare ai rettori italiani, e alla ministra Stefania Giannini, che la neutralità nelle cose umane non esiste, anche quando la si sbandiera. Invece, proprio perché la libertà accademica è un bene necessario e non un lusso, né per i docenti né per gli studenti in formazione, occorre ammettere come spesso questa venga scambiata per acquiescenza a dei poteri, al senso comune, ai costumi, ai governi, etc. Inoltre, la storia europea ed occidentale recente è piena di esempi di quanto la pretesa di neutralità sia falsa.
Dai campi di sterminio nazisti in cui si facevano esperimenti medici su cavie umane, approfittando di vittime che in alcun modo potevano difendersi e sottrarsi alle sevizie, alla costruzione della bomba H, gli esempi potrebbero essere moltissimi. Per esemplificare più chiaramente possibile il nostro pensiero riguardo alla scelta di aderire ad una scienza responsabile, quindi sottratta a facili giustificazioni, la cosa migliore è ricordare Daniel Amit, uno scienziato in fisica neurale, purtroppo scomparso prematuramente nel 2007, che per decenni ha lavorato alla Sapienza di Roma e diverse volte è stato candidato al Nobel per la fisica. Daniel Amit era un ebreo israeliano di origini polacche, intellettuale molto noto a livello internazionale, che nel marzo 2003 prese la decisione irrevocabile di rompere ogni rapporto di collaborazione con la comunità scientifica statunitense all’indomani dell’invasione dell’Iraq.
Daniel Amit nell’aprile di quello stesso anno rese pubblico uno scambio di lettere con Martin Blum, caporedattore della American Physical Society, che tentava di farlo recedere dalla sua decisione dicendo: “Consideriamo la scienza un’impresa internazionale e facciamo del nostro meglio per mettere da parte i disaccordi politici, nell’interesse della promozione della scienza stessa”. A queste parole, Daniel Amit rispose: “Purtroppo, appartengo a una cultura di simile deviazione spirituale (Israele) la quale sembra essere ugualmente incorreggibile [. . .]. Eserciterò tale minuscolo atto di disobbedienza per poter guardare dritto negli occhi dei miei nipoti e dei miei allievi e poter affermare che sapevo.” (http://luis.impa.br/guerra/carta.html)
In qualche modo riteniamo doveroso raccogliere il monito di Daniel Amit con il nostro “minuscolo atto di disobbedienza” perché anche noi sappiamo, soprattutto quando il silenzio è un atto di complicità. Nena News
Fonte: Nena News