Quando si parla di libertà di espressione, libertà universitaria e culturale, o di diritto all'educazione in relazione a Palestina-Israele (e, ormai su scala internazionale, in relazione a un possibile boicottaggio di Israele e delle sue istituzioni, fino a che non cesseranno i loro abusi), spesso si dimentica che queste sono alcune delle normali condizioni in cui funziona, da decenni, l'insegnamento e la vita accademica palestinese.
di Nicola Perugini
Mercoledì 22 gennaio. Come al solito, come tutti i miei studenti e colleghi, salgo nella mia macchina abbondantemente in anticipo rispetto all'orario di inizio delle lezioni. In Palestina non esiste altro modo per "fare fronte" all'evenienza di qualsiasi ritardo che il muro tra Cisgiordania e attuale Israele, i checkpoint e tutti gli altri ostacoli che il sistema di occupazione, colonialismo e apartheid messo in atto contro i palestinesi può creare quotidianamente. È l'unico modo per essere "sicuri" di "arrivare in tempo" all'università.
Scrivo "fare fronte", "sicuri" e "arrivare in tempo" tra virgolette perché a volte all'università non ci si arriva proprio. Magari perché l'esercito israeliano blocca le strade o le entrate, o perché il sistema dei checkpoint che circonda le città palestinesi crea degli intasamenti che durano ore, e addio lezioni e università.
Arrivato al campus dell'Università di Al Quds, nella piccola città-bantustan di Abu Dis (dove da qualche anno insegno e dove dirigo il Programma di Diritti Umani e Diritto Internazionale), trovo cinque jeep militari dell'esercito di occupazione israeliano che sostano di fronte all'Università. Secondo quanto riportano fonti dell'Università di Al Quds, alcune settimane fa l'esercito aveva demolito un'abitazione situata di fronte al nostro campus e considerata un "rischio per la sicurezza di Israele" perché troppo vicina al muro che separa l'università da Gerusalemme. La mattina del 22 gennaio, i proprietari stavano cercando di ricostruire la piccola strada che porta alla casa e l'esercito è intervenuto.
Ovviamente la ricostruzione di una casa demolita o in questo caso della strada che conduce a essa, costituisce, in un contesto coloniale, un enorme affronto. Cancellare e ricostruire una presenza indigena è al cuore dello scontro tra chi da un lato costruisce colonie e demolisce case indigene, e chi invece dall'altro le costruisce e ricostruisce come forma di r-esistenza. Poco dopo che il proprietario ha iniziato a lavorare con un bulldozer per riaprire strada, l'esercito è intervenuto, ha confiscato il bulldozer e stazionato a lungo – come spesso accade, in maniera provocatoria– nei pressi delle entrate principali del nostro campus.
Alle nove e un quarto lascio la mia macchina in un parcheggio "protetto" – visto che normalmente, quando l'esercito attacca il nostro campus, le macchine parcheggiate agli ingressi subiscono gravi danni. Entro nel campus e inizio il mio ricevimento studenti, "come se niente fosse". Poco dopo le dieci e mezzo incontro un laureando e usciamo in cortile per discutere il suo progetto di tesi sul perché il diritto internazionale è applicato solo ad alcuni crimini e criminali, ma non ad altri. Poco dopo avergli consigliato di includere nella tesi una sezione su Ariel Sharon, Sabra e Chatila e il mancato processo internazionale per crimini di guerra prima che Sharon morisse, iniziamo a lacrimare. L'esercito aveva appena dato inizio alle cinque ore di gas lacrimogeni, spari di pallottole rivestite di gomma, granate stordenti e pallottole vere che hanno segnato la nostra giornata universitaria.
Gli attacchi dell'esercito sul nostro campus sono frequenti. Ma questa volta la giornata di ordinaria vita universitaria è stata particolarmente dura. Molti studenti e personale sono rimasti feriti e hanno riportato sintomi di soffocamento (il gas utilizzato era particolarmente forte e provocava forti irritazioni su varie parti del viso). In uno degli edifici del campus il fitto lancio di lacrimogeni al piano terra ha bloccato dentro alcuni studenti e il personale universitario, poi usciti con delle scale dopo aver spaccato le vetrate dei piani superiori. Le pallottole dell'esercito hanno distrutto molte delle finestre e vetrate dell'università. L'università ha messo in atto un piano di evacuazione e fatto uscire parte degli studenti e del personale. Ma dopo ore di spari e sassaiole l'esercito è entrato dentro il campus e assediato diversi edifici, compreso quello dove mi trovavo.
Intrappolati dentro con i colleghi e gli studenti rimasti, abbiamo incominciato a pensare cosa fare nel caso che i soldati avessero fatto irruzione. Una collega dice: «Forse è meglio che gli uomini si nascondano in cucina, potrebbero essere arrestati». Proprio un attimo dopo entra l'esercito nel nostro corridoio. Uomini in passamontagna catturano uno studente di fronte ai nostri occhi, a pochi centimetri da me. Escono e lo trascinano via. Continuano gli scontri e gli arresti. Usciamo dal nostro edificio alle tre e mezzo del pomeriggio. Il personale amministrativo e il servizio di sicurezza dell'università iniziano a valutare gli ingenti danni. Arriva la televisione nazionale palestinese. Qualche intervista. Il responsabile della sicurezza dell'università che dice: «Questo è il nostro destino: lo stato di assedio».
Dopo cinque ore di accerchiamento usciamo dall'unica strada che l'esercito ha lasciato aperta.
Fonte: Lavoro Culturale