di Stephanie Westbrook
L’estate del 2011 è stata lunga e calda per le aziende israeliane e internazionali che si sono rese complici di violazioni dei diritti umani nei territori palestinesi occupati.
Il più grande esportatore israeliano di prodotti agricoli, Agrexco, che commercializza il 60-70 per cento della frutta e verdura coltivate su terreni rubati in Cisgiordania, ha dichiarato la bancarotta. Già obiettivo del movimento per il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS) e un’intensa campagna europea, Agrexco ha visto allontanarsi anche i potenziali acquirenti internazionali, avvertiti dagli attivisti BDS che essi stessi sarebbero diventati obiettivi di boicottaggio, lasciando una sola società israeliana, Kislev, in gioco.
Anche la multinazionale francese Veolia, coinvolta in progetti di trasporti e gestione dei rifiuti nelle colonie illegali israeliane, ha annunciato perdite pesanti, tanto che l’azienda ha dovuto ridimensionare le sue operazioni all’estero. L’annuncio è arrivato pochi giorni dopo che la società aveva perso ancora un altro contratto a Londra. Veolia è stata presa di mira dagli attivisti BDS di tutto il mondo, con una campagna mirata a convincere i consigli comunali di escludere la società da contratti pubblici.
In Svezia, il produttore israeliano di sistemi per rendere gassata l’acqua dal rubinetto, Sodastream, ha subito un colpo diretto quando la catena di supermercati Coop ha annunciato il 19 luglio la sospensione degli acquisti dei suoi prodotti. Per due anni, la Sodastream è stata oggetto di una campagna svedese che mirava a evidenziare la complicità dell’azienda con l’occupazione israeliana. Il principale impianto di produzione di Sodastream si trova, infatti, a Mishor Adumim, la zona industriale dell’insediamento israeliano di Ma’aleh Adumim nella Cisgiordania occupata, a causa dell’attività della società negli insediamenti illegali israeliani.
Per il movimento BDS, questa è stata un’altra importante vittoria, in quanto la Svezia rappresenta il più grande mercato per la Sodastream, dove si stima che i suoi sistemi per gasare l’acqua si trovino in una casa su cinque.
Sodastream, i cui prodotti sono venduti in 41 paesi, ha ripetutamente cercato di distogliere l’attenzione dalla sua fabbrica a Mishor Adumim, affermando che è solo una delle tante in tutto il mondo. In un’intervista rilasciata lo scorso marzo con il quotidiano finanziario israeliano The Marker (pubblicato da Ha’aretz), l’amministratore delegato della Sodastream, Daniel Birnbaum, ha addiritura dichiarato che “tutti i prodotti Sodastream venduti in Svezia sono prodotti in Cina, non in Israele”.
Il rapporto annuale presentato il 30 giugno 2011 alla US Securities and Exchange Commission (SEC), come d’obbligo per le società quotate in borsa, (Sodastream è quotata al NASDAQ), dimostra chiaramente che le affermazioni di Birnbaum sono palesemente false. Nel rapporto l’impianto a Mishor Adumim di 15.255 metri quadrati è descritto comprendere “una fabbrica per lavorare il metallo, una fabbrica per lavorare la plastica e produrre bottiglie, una fabbrica attrezzata con macchine utensili, una fabbrica di assemblaggio, un impianto per la produzione di cilindri, un impianto per la ricarica di CO2 e un impianto per collaudare i cilindri”, mentre due subappaltatori in Cina non producono altro che “alcuni componenti” per i gasatori Sodastream.
Il rapporto annuale chiarisce anche che le tanto vantate “fabbriche in tutto il mondo” – vale a dire in Australia, Germania, Olanda, Nuova Zelanda, Sud Africa, Svezia e Stati Uniti – forniscono soltanto servizi di ricarica di CO2.
Coop Svezia ha inizialmente cercato di difendere i suoi legami con Sodastream, ripetendo che i prodotti sugli scaffali svedesi erano fabbricati in Cina. Ma, come evidenziato nel dossier presentato alla Coop dalla Associazione di Solidarietà con la Palestina svedese (PGS) lo scorso gennaio, il problema principale non era tanto dove venissero prodotti i gasatori ma che la COOP aveva rapporti con aziende israeliane che violavano il diritto internazionale.
La decisione di Coop Svezia, con una quota di mercato del 21,5 per cento dei supermercati svedesi, è arrivata dopo un servizio televisivo nazionale andato in onda il 4 luglio sulla Sodastream e le sue attività a Mishor Adumim. Da informazioni fornite da giornalisti israeliani e organizzazioni per i diritti umani nonché documenti aziendali della Sodastream, il servizio ha mostrato che, nonostante le smentite sia di Sodastream che del suo distributore svedese, Empire, i prodotti venduti in Svezia sono fabbricati in un insediamento illegale nella Cisgiordania occupata. Tre anni fa la Empire aveva promesso che la produzione nello stabilimento a Mishor Adumim sarebbe cessata.
Sodastream è stata una scelta naturale come caso per la ricerca sulle attività aziendali negli insediamenti illegali israeliani per il rapporto pubblicato a gennaio 2011 dal progetto Who Profits della Coalizione di Donne per la Pace in Israele.
Il rapporto ha sottolineato come l’acquisto di prodotti Sodastream dia un sostegno diretto all’insediamento di Ma’aleh Adumim: le tasse comunali pagate dall’azienda vengono utilizzate esclusivamente per “sostenere la crescita e lo sviluppo dell’insediamento”.
La creazione della zona industriale illegale di Mishor Adumim nel 1974 è stata strumentale per la creazione dell’insediamento di Ma’aleh Adumim. Il comitato ministeriale incaricato di eseguire il piano per la creazione della zona industriale ha espropriata un’area sette volte più grande di quella originariamente raccomandata, rubando le terre ai villaggi palestinesi circostanti di Abu Dis, Azarya, A-Tur, Issauya, Han El Akhmar, Anata e Nebbi Mussa. Il rapporto di Who Profits evidenzia che questo è “considerato il più grande singolo esproprio nella storia dell’occupazione israeliana”.
Oltre alla zona industriale, la commissione ministeriale ha anche aggiunto alloggi per i lavoratori. Un anno dopo, questi alloggi sono diventati l’insediamento di Ma’aleh Adumim. Nel 1977, quando il partito Likud ha conquistato il potere, il governo ha ufficialmente riconosciuto Ma’aleh Adumim come una “comunità civile”.
Oggi, Ma’Aleh Adumim è il più grande insediamento israeliano in termini di superficie e, con 35.000 abitanti, terzo per popolazione. Strategicamente posizionato per collegare gli insediamenti di Gerusalemme est a quelli della Valle del Giordano, Ma’aleh Adumim effettivamente taglia in due la Cisgiordania, separando il nord dal sud.
Sodastream: “uno splendido esempio di coesistenza pacifica”?
La direzione della società invece cerca di presentare Sodastream come un favoloso luogo in cui i palestinesi sarebbero fortunati a lavorarci. A giugno il direttore di marketing per Sodastream Italia, Petra Schrott, ha dato la solita risposta aziendale ad una domanda postata su Yahoo Answers sulla fabbrica in Cisgiordania, descrivendola come “uno splendido esempio di coesistenza pacifica”, dove “lavorano circa 160 palestinesi che ricevono per intero tutte le prestazioni sociali e sanitarie in conformità con la legge israeliana”, per non parlare dei “pasti caldi quotidiani”.
Come il rapporto di Who Profits sottolinea, i lavoratori palestinesi, con poche alternative oltre a quella di lavorare negli insediamenti a causa della disoccupazione, “vivono sotto occupazione e quindi non godono di diritti civili, e inoltre dipendono dai loro datori di lavoro per i permessi di lavoro”. Tentativi da parte dei lavoratori palestinesi di organizzarsi e rivendicare i propri diritti spesso risultano nel ritiro dei permessi di lavoro, portando pochi a fare qualsiasi richiesta ai propri datori di lavoro. Secondo l’organizzazione israeliana per i diritti dei lavoratori, Kav LaOved, i lavoratori palestinesi negli insediamenti israeliani sono sottopagati, sottoposti a umilianti controlli di sicurezza, esposti ai rischi sul posto di lavoro e abbandonati a se stessi in caso di incidenti sul lavoro.
Kav LaOved ha assistito i lavoratori palestinesi della fabbrica Sodastream a Mishor Adumim nella loro lotta per migliorare le condizioni di lavoro e i salari. Nel 2008, lavoratori che si lamentavano salari molto al di sotto del salario minimo e giornate lavorative di 12 ore hanno organizzato una protesta nella fabbrica dopo che i loro appelli non avevano avuto nessuna risposta. Sono stati licenziati 17 lavoratori. Fu solo dopo che Kav LaOved è intervenuta con lettere e incontri con i manager della Sodastream, e sopratutto che la Sodastream si è guadagnata pubblicità poco lusinghiera sulla stampa svedese, che l’azienda ha a malincuore riassunto i lavoratori palestinesi e ha rispettato i loro diritti lavorativi. Tuttavia, come Kav LaOved ha notato, restavano “gli ultimi nella gerarchia in fabbrica e con il costante timore di essere licenziati”. Infatti, la storia si è ripetuta nel mese di aprile 2010, con 140 lavoratori licenziati e non pagati i loro stipendi per il mese precedente. Kav LaOved ancora una volta è riuscita ad ottenere il pagamento dei salari e di fare riassumere i lavoratori, tranne i due che hanno condotto la lotta. Da quel momento, Kav LaOved non è più riuscita ad avere informazioni sulle condizioni di lavoro nella fabbrica Sodastream a Mishor Adumim.
Non sorprende che i lavoratori palestinesi alla fabbrica Sodastream provengano da alcuni dei villaggi la cui terra è stata rubata per creare Ma’aleh Adumim, tra cui Abu Dis e Azarya, quest’ultima in particolare ha perso il 57 per cento delle sue terre.
Sodastream pubblicizza i suoi prodotti come “eco-ambientali”. È un’idea che è difficile da conciliare con il fatto che l’insediamento che l’azienda sostiene finanziariamente è responsabile per la “gestione” della famigerata discarica di Abu Dis, costruita illegalmente su terreni espropriati dal villaggio omonimo, in cui vengono scaricati rifiuti provenienti da Gerusalemme e dagli insediamenti circostanti.
Nel giugno 2011, il Comune di Gerusalemme ha finalmente accettato di rispettare l’ordine di ottobre 2010 del Ministero dell’Ambiente per ridurre le 1100 tonnellate di rifiuti che vengono scaricate al giorno ad Abu Dis, perché la discarica sta “inquinando corsi d’acqua e terre nelle vicinanze”.
La discarica di Abu Dis si trova sopra la Mountain Aquifer, la principale fonte d’acqua in Cisgiordania. In base ai mal concepiti Accordi di Oslo, a Israele viene concessa una quantità di acua dalla falda acquifera superiore di quattro volte a quella data ai palestinesi, i quali devono ottenere l’approvazione per lo sviluppo e il mantenimento delle proprie risorse idriche dal Joint Water Committee (JWC), in cui Israele gode di esclusivo potere di veto sulla Cisgiordania. Da Oslo in poi, nessun nuovo permesso per pozzi agricoli è stato emesso e 120 pozzi palestinesi esistenti non funzionano per mancanza di approvazione per le riparazioni. I palestinesi sono costretti ad acquistare la propria acqua dalla società israeliana Mekerot.
Pubblicità negativa contro gli incentivi fiscali
Nel rivelare fattori di rischio, come d’obbligo per la documentazione richiesta dalla SEC, Sodastream ha elencato sia il rimanere in, che il trasferirsi da, Mishor Adumim. I rischi associati con rimanere includono “pubblicità negativa, soprattutto in Europa occidentale, contro le aziende con strutture in Cisgiordania” e “boicottaggio dei prodotti israeliani provenienti dalla Cisgiordania”. Rispettare il diritto internazionale e lasciare l’insediamento illegale, d’altra parte, avrebbe “limitato alcune agevolazioni fiscali”, delle quali godono le aziende nelle zone industriali negli insediamenti illegali.
Tuttavia, sempre più aziende arrivano alla conclusione che questi incentivi fiscali non ricompensano la pubblicità negativa. Il 19 luglio, la multinazionale Unilever, dopo aver tentato invano di vendere la sua quota nella società Bagel e Bagel, ha formalmente annunciato l’intenzione di spostare la sua fabbrica dalla zona industriale di Barkan nell’insediamento di Ariel all’interno dei confini di Israele.
E mentre la Israel Lands Administration ha recentemente annunciato gare per sei nuovi fabbriche a Mishor Adumim, l’organizzazione israeliana Peace Now rivela che si tratta di una gara riciclata, già emessa sotto l’amministrazione Olmert nel 2008, che non è riuscita ad attrarre partecipanti.
Anche la Sodastream comincia a mostrare segni dell’impatto delle campagne internazionali contro la società. In un comunicato stampa del 6 luglio ha annunciato la costruzione di una nuova fabbrica all’interno dei confini di Israele. Il nuovo impianto dovrebbe entrare in funzione nel 2013, lo stesso anno in cui scade il contratto di affitto a Mishor Adumim.
Nel comunicato stampa, l’amministratore delegato Birnbaum ha affermato che la società si aspetta di far leva degli “accordi di libero scambio con l’UE e con il Nord America”. Nel 2010, Sodastream è stata al centro di una sentenza della Corte di Giustizia Europea che ha dichiarato i prodotti provenienti dagli insediamenti nei territori palestinesi occupati non ammissibili per le tariffe doganali preferenziali sotto l’accordo UE-Israele. Anche se diverse altre azioni legali sono state incluse nei documenti depositati presso la SEC da Sodastream, questo caso in particolare era vistosamente assente.
Italia “mercato chiave”
Sodastream è in gran parte una società di esportazione, con solo tre per cento delle vendite effettuate in Israele, secondo Israele 21c. Mentre la Svezia è attualmente il più grande mercato per Sodastream, il blitz pubblicitario in atto in diversi paesi europei e negli Stati Uniti indica che la società vuole espandersi. Il 12 luglio Sodastream ha annunciato una campagna pubblicitaria televisiva in Gran Bretagna per Euro 3,4 milioni.
Mentre in Italia, dove la Sodastream è presente dal 2008, è partita a giugno una campagna “in chiave ‘eco-chic’” per Euro 1,8 milioni, che comprende web, radio, e per la prima volta, pubblicità televisive, e che punta a proporre i gasatori Sodastream come regalo natalizio.
Il rapporto annuale di Sodastream dimostra che il suo budget pubblicitario è più che raddoppiato, passando da Euro 10,5 milioni nel 2009 a 21,5 milioni nel 2010, e definisce l’Italia come un mercato chiave. La Sodastream produce anche concentrati per fare bibite gasate in casa, addotando sapori per soddisfare i gusti locali. Per l’Italia ha pensato bene di aggiungere il chinotto.
Anche negli Stati Uniti la Sodastream mira a nuove quote di mercato, e gli attivisti si stanno attrezzando per contrastrarla. In un’azione coordinata lo scorso marzo, una petizione con oltre 2.500 firme chiedendo alla catena Bed Bath & Beyond di sospendere la vendita dei prodotti Sodastream (così come Ahava, società di cosmetici con sede negli insediamenti), è stata consegnata a 15 punti vendità su e giù per la West Coast, da Seattle a Los Angeles. Nel mese di agosto, un gruppo di attiviste travestite da spose hanno tenuto un matrimonio finto all’interno di Bed Bath & Beyond a Los Angeles, invitando tutte le spose a cancellare Sodastream (e Ahava) dalle loro liste di nozze. E in Italia, la campagna pubblicitaria sul web fornisce uno spazio opportuno per iniziative di contro informazione sulla Sodastream.
La recente decisione di Coop Svezia, grazie alla lavoro costante degli attivisti svedesi, non solo dà una spinta alle campagne BDS in tutto il mondo, ma manda anche un segnale importante ad altre società che mantengono rapporti con aziende che si rendono complici delle violazioni dei diritti umani.
Fonte: Nena News