“Gli Accordi di Oslo si sono rivelati uno strumento capace di annientare il movimento nazionale di resistenza palestinese, e di assicurare a Israele il controllo della vita quotidiana della popolazione occupata senza dover rispondere di alcuna responsabilità.” Incontro nel villaggio di Bil’in con Michel Warschawsky, storico attivista israeliano, direttore dell’Alternative Information Center.
di Stefano Nanni da Bil’in, Territori Palestinesi occupati
Michel Warschawsky non è un attivista qualunque. Nato nel 1949 da una famiglia ebrea ortodossa di origine francese, arrivò in Israele per la prima volta nel 1965 per studiare nella yeshiva (scuola dedicata agli studi del Talmud e della Torah) Mercaz Harav.
Due anni più tardi la guerra del 1967 segnerà l’inizio dell’Occupazione israeliana in Palestina: per Warschawsky è questo un momento di svolta sia individuale che politica, e che lo porterà ad essere uno degli attivisti anti-sionisti più importanti nel panorama israeliano.
La sua lunga carriera politica – ripercorsa recentemente in un’intervista realizzata da Haaretz – è strettamente legata al mondo del pacifismo e della sinistra israeliana. Come testimoniato dalla partecipazione all’Organizzazione Socialista Israeliana Maptzen (“Compasso”), nata nel 1962 da dissidenti del Partito Comunista Israeliano e attiva fino alla fine degli anni ’80, che proponeva un’analisi e un’opposizione radicali al sionismo; dalla fondazione di Yesh Gvul (“C’è un limite”), movimento di soldati riservisti che nel 1982 si rifiutarono di servire nell’esercito nel corso della guerra contro il Libano; e infine dalla creazione nel 1984 dell’Alternative Information Center, Ong israelo-palestinese di è cui direttore, che rappresenta ancora oggi una fondamentale risorsa di informazione alternativa.
Un percorso, il suo, che necessariamente ha incontrato – e si è scontrato - con gli Accordi di Oslo, colpevoli a suo parere di aver “aggravato la tragedia palestinese” e di aver “accelerato il processo di colonizzazione” dei Territori da parte di Israele.
Osservatorio Iraq lo ha incontrato lo scorso 3 ottobre a Bil’in, villaggio poco distante da Ramallah, nel corso dell’ultima giornata della Conferenza Internazionale dei Comitati Popolari di resistenza nonviolenta palestinese. Nonostante il poco tempo a disposizione, e con l’inizio della protesta settimanale del venerdì alle porte, Warschawsky ha risposto alle nostre domande, dandoci il suo parere sull’eredità di Oslo.
A vent’anni dalla loro firma, cosa rappresentano a suo parere gli Accordi di Oslo?
Quando hanno visto la luce, era già chiaro che avrebbero potuto essere valutati in due modi diversi. Il primo consisteva nel considerarli un terreno facilmente manipolabile dagli israeliani a favore dei loro interessi, e dunque un disastro per i palestinesi. Il secondo, al contrario, era un approccio più moderato: gli Accordi non erano buoni, ma potevano rappresentare un primo passo verso qualcosa di migliore. Io sostenevo quest’ultima visione, ma - come sappiamo tutti - ha avuto la meglio la prima.
Con grande efficacia, Oslo si è rivelato uno strumento capace di annientare il movimento nazionale palestinese e di assicurare a Israele il controllo della vita quotidiana dei palestinesi senza dover rispondere di alcuna responsabilità. Dopo 20 anni non c’è niente da celebrare: la tragedia palestinese è sotto gli occhi di tutti.
Il processo di colonizzazione prosegue con forza senza che Israele si faccia carico delle necessità di una popolazione occupata: questo era l’obiettivo israeliano sin dall’inizio. Ma la situazione è peggiorata anche a causa della collaborazione di una componente della società palestinese, in cui si è sviluppata la convinzione che collaborare fosse preferibile al confronto, per non rischiare di perdere quel poco che si era conquistato.
Rispetto a vent'anni fa si nota infatti una maggiore frammentazione all’interno della società palestinese…
Siamo di fronte ad una frammentazione enorme. E non solo tra la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, ma anche e soprattutto all’interno di entrambe le aree. Queste divisioni non sono soltanto politiche – come quelle fra Hamas, l’OLP e l’ANP (rispettivamente Organizzazione per la Liberazione della Palestina e Autorità Nazionale Palestinese, ndr). Basta osservare la situazione qui (in Cisgiordania, ndr), dove ci sono divisioni tra zone urbane e rurali: indubbiamente, un grande vantaggio per Israele.
La suddivisione territoriale e amministrativa dei Territori Palestinesi in aree A, B e C da temporanea è divenuta ormai permanente. Quanto ha influito, secondo lei, nell’accentuare questa frammentazione?
E’ stata determinante, perché ha creato quelle divisioni sociali che, come dicevo, esistono tra città e villaggi in Cisgiordania.
Rappresentano la differenza tra chi ha guadagnato qualcosa e chi invece non ha avuto nulla.
C’è una piccola parte della popolazione palestinese che grazie a Oslo è riuscita ad arricchirsi. Ma è una prosperità artificiale, perché ora che dall’Europa, che è in crisi, arrivano meno soldi, questo finto sviluppo sta cadendo a pezzi. Alcuni palestinesi hanno fatto molti soldi in cambio della sicurezza garantita ad Israele, mentre chi era povero continua ad esserlo sempre di più.
Ad ogni modo l’impianto di Oslo è ancora attuale, dato la ripresa dei negoziati tra ANP e Israele della scorsa estate, incentrati in particolar modo sulle questioni economiche.
Anche questo è un risultato che favorisce Israele, cercato e ottenuto da Shimon Peres quando era capo del governo. Secondo questa concezione di “pace economica” non ci sarà più alcuna lotta armata di liberazione fino a quando i palestinesi avranno abbastanza da mangiare e saranno messi nelle condizioni di mandare a scuola i propri figli.
Non credo che questo sia vero, ma certamente senza questa iniezione di denaro nelle casse palestinesi la situazione sarebbe molto diversa. La “pax economica” è probabilmente buona per gente come Salam Fayyad o qualche altro ricco personaggio palestinese, ma non rappresenta assolutamente una soluzione politica per la maggior parte della popolazione, immobilizzata in una combinazione di dure condizioni economiche e sociali.
Nonostante la pesante eredità di Oslo dopo un ventennio le dimostrazioni e le proteste contro l’Occupazione, il Muro e le colonie non mancano. Come giudica queste forme di resistenza?
Le manifestazioni che vediamo oggi non hanno niente a che vedere con quelle di 5-6 anni fa. E questa è una realtà che vale per tutta la Palestina.
La resistenza popolare oggi sta subendo una sorta di processo di privatizzazione: è principalmente basata sul locale, nei villaggi soprattutto, e attorno ad alcune famiglie.
In generale ognuno pensa alla propria terra, alla sua casa, cerca di fare il possibile per affrontare dignitosamente la vita di tutti i giorni, ad esempio trovando i soldi per mandare i figli all’università. Anche queste sono forme di resistenza popolare, che però hanno un significato difensivo molto diverso da quello che avevano le “storiche” lotte palestinesi – senza dimenticare che la Seconda Intifada è storia di solo 10 anni fa.
Purtroppo però dal passato non sempre si impara, e a volte si fanno dei passi indietro. Ecco, credo che oggi i palestinesi si trovino in una situazione del genere: stanno indietreggiando, o meglio, sono fermi. Possiamo sperare che si tratti di un pausa, per recuperare forze ed energie.
In una situazione del genere, secondo lei, quale ruolo può ancora avere l’attivismo internazionale e quello israeliano?
Credo che oggi l’unico e il più importante modo per supportare la causa palestinese dall’esterno si possa riassumere in tre lettere: BDS (sigla della campagna Boycott, Divesting and Sanctions per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni nei confronti di Israele, ndr).
E questo significa che tutti - cittadini, imprese, politici - devono fare pressione su Israele ad ogni livello, anche culturale. Solo così si potrà contribuire alla fine dell’Occupazione israeliana in Palestina.