Shimon Peres, l'attuale presidente di Israele che negli anni 60 supervisionò lo sviluppo di armi nucleare del paese israeliano, ha organizzato una festa piena di celebrità per il 90esimo compleanno, mascherandola da conferenza presidenziale, lo scorso Giugno. Israel’s president and the man who oversaw the country’s secret development of a nuclear bomb in the 1960s, held a star-studded 90th birthday party masquerading as a presidential conference in June. Tralasciando l'ombra gettata dalla decisione del fisico britannico Stephen Hawking di boicottare l'evento, il tutto è risultato essere uno sfrontato tributo alla vita e al lavoro svolto da Peres da parte di una lunga lista di personalità internazionali, dall'ex presidente degli Stati Uniti Bill Clinton a Barbra Streisand.
Tuttavia, come evidenziato da un sito web israeliano, questo party da 3 mln di $ al capo dello stato israeliano è stato principalmente finanziato dall'industria bellica: i tre maggiori finanziatori erano famosi imprenditori di armamenti, incluso il presidente onorario della conferenza, Aaron Frenkel.
E tutto ciò è tristemente normale, visto il grande ascendente internazionale di Israele tra i produttori di armamenti durante l'ultimo decennio: nonostante il paese abbia una popolazione minore rispettoa quella di New York City, Israele si è costruito una certa fama negli ultimi anni come uno dei più grandi esportatori di armi.
A Giugno, analisti della difesa hanno messo Israele al sesto posto in questo speciale classifica, davanti alla Cina e all'Italia, entrambi grandi produttori di armi e, se si calcola anche il crescente mercato clandestino di Israele, la posizione sale fino al quarto posto, davanti alla Gran Bretagna e alla Germania, dietro solo a Stati Uniti, Russia e Francia.
Il motivo del successo israeliano in questo mercato può essere dedotto grazie a semplice calcolo matematico: con vendite record di 7 mld di $ lo scorso anno, Israele ha guadagnato qualcosa come 1.000$ pro capite dal commercio di armi, 10 volte di più di quanto guadagnano gli Stati Uniti dal medesimo commercio.
Il grande affidamento che Israele fa sul commercio degli armamenti è stato scoperto a Luglio, quando un tribunale locale ha obbligato alcuni ufficiali a rivelare i dati relativi a questo tipo mercato, scoprendo così che qualcosa come 6.800 cittadini israeliani sono attivamente coinvolti nell'esportazione di armamenti. In altra sede, Ehud Barak, Ministro della Difesa dell'ultimo governo, ha rivelato che 150.000 famiglie israeliane (quasi il 10% della popolazione) dipendono economicamente dal commercio bellico. Tralasciando queste rivelazioni, Israele comunque è sempre stato riluttando nell'alzare il velo di segretezza che copriva questi commerci, adducendo al fatto che qualsiasi ulteriore rivelazione avrebbe potuto compromettere la sicurezza nazionale e i rapporti internazionali.
Per tradizione, l'industria bellica israeliana è sempre stata gestita dal Ministero della Difesa, in un sistema che vedeva una serie di corporazioni belliche di proprietà dello stato sviluppare armamenti per conto dell'esercito israeliano. Ma con il fiorire delle indistrie high tech israeliane nell'ultimo decennio, una nuova generazione di ufficiali congedati dall'esercito hanno intravisto la possibilità di sfruttare la propria esperienza e i loro contatti militari per sviluppare e testare nuove armi, sia per lo stato di Israele, sia per clienti esteri. In questo processo, l'industria bellica si è guadagnata un posto tra i principali sostenitori dell'economia israeliana, attestando la proprie esportazioni a un quinto del totale.
“Il Ministro della Difesa israeliano non sono fa grandi affari con le guerra, ma si assicura anche che il mercato dell'industria bellica sia sempre in fremito”, ha dichiarato Leo Gleser, che gestisce un'azienda di consultazioni per fini bellici specializzata nello sviluppo di nuovi mercati in America Latina.
Leo Gleser che è uno dei tanti commercianti d'armi intervistato in un nuovo documentario che alza il velo sula natura e sugli obiettivi del mercato bellico israeliano.
“The Lab,” recentemente vincitore di un premio ai DocAviv, gli oscar israeliani dei documentari, è stato presentato ad Agosto negli Stati Uniti. Diretto da Yotam Feldman, il film propone una una vista da molto vicino dell'industria bellica israeliana e degli imprenditori che grazie ad essa si sono arricchiti.
Il titolo fa riferimento al tema centrale del film: l'affidamento a cui Israele è rapidamente arrivato di continuare a tenere in cattività i palestinesi in ciò che non sono nient'altro che le più grandi prigioni a cielo aperto del mondo, ovvero i massicci profitti che Israele riesce a trarre dal testare le innovazioni belliche su più di 4 mln di palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.
Secondo Feldman, questa tendenza è iniziata con l'operazione Scudo di Difesa, ovvero la re-invasione israeliana dei Territori Occupata e di Gaza nel 2002, che ha formalmente invertito il processo di ritiro israeliano dai territoriori occupati militarmente iniziato tiepidamente con gli Accordi di Oslo. A seguito di quell'operazione, molti ufficiali dell'esercito sono entrati nel business privato, arrivando a rompere nuovi record per l'industria bellica israeliana (2 mld di $ nel 2005).
Ma la più grande impennata di vendite si è registrata dopo l'operazione Piombo Fuso, l'assalto israeliano alla Striscia di Gaza a cavallo del biennio 2008-2009, che ha visto l'uccisione di più 1.400 palestinesi e di 13 israeliani: il record di vendite sulla scia di questa operazione ha toccato i 6 mld di $.
Il film spiega come queste operazioni militari, inclusa la recente Colonna di Nuvola dello scorso anno sempre contro la Striscia di Gaza, servano come esperimenti in laboratorio per valutare e rifinire l'efficacia dei nuovi approcci militari, sia dal punto di vista strategico che di equipaggiamento.
In particolare, Gaza è diventata la vetrina dell'industria bellica israeliana, permettendo a questa di sviluppare e mettere su mercato sistemi di sorveglianza, controllo e assoggettamento di un popolazione “nemica”, e siccome la maggior parte dei palestinesi sono forzosamente rinchiusi in centri abitativi urbani, le tradizionali politiche designate per differenziare i civili dai guerriglieri sono dovute essere cancellate.
Amiram Levin, ex capo dell'esercito israeliano stanziato nel nord negli anni '90 e ora commerciate d'armi, è stato filmato ad una conferenza di industrie di armamenti mentre dichiarava che l'biettivo di Israele nei territori palestinesi è quello di punire la popolazione locale per creare un più ampio “spazio di manovra”, e, considerandone gli effetti, ha commentato che la maggior parte dei palestinesi “è nata per morire, noi dobbiamo solo dargli una mano”.
Il film evidenzia le tipologia di innovazioni per cui Israele si è guadagnato grande fama tra i servizi di sicurezza stranieri: dallo sviluppo di macchine automatiche all'avanguardia in grado di uccidere ai droni che sono diventati la punta di diamante dell'equipaggiamento statunitense per i bombardamenti in Medio Oriente, e spera di ripetere il successo con Iron Dome, il sistema di intercettamento dei missili pubblicizzato ogni volta che viene sparato un razzo dalla Striscia di Gaza.
Israele si è anche specializzato nel realizzare sistemi bellici futuristici, come i fucili in grado di sparare da dietro agli angoli. E non è una sorpresa che perfino Hollywood ne è stata cliente, con Angelina Jolie che metteva in bella mostra alcuni di questi armamenti nel suo film “Wanted”.
Ma le inaspettate star di “The Lab” non sono i commercianti di armi, ma bansì gli ex ufficiali dell'esercito israeliano che si sono riciclati in accademici, le cui teorie hanno aiutato a guidare l'esercito e le compagnie high tech nello sviluppo di tattiche ed arsenali militari.
Ad esempio, in una scena, Shimon Naveh, un filosofo particolarmente entusiasta dell'industria bellica, attraversa un finto villaggio arabo ricostruito per l'occasione che è servito da campo per la sua ideazione di una nuova teoria di guerriglia urbana durante la seconda intifada.
Nell'attacco alla cittadella di Nablus nel 2002, piuttosto che obbligare l'esercito israeliano ad affrontare qualche imprevisto dovuto agli instricabili vicoletti labirintici del villaggio, suggerì ai soldati di non muoversi lungo le stradine, dove avrebbero potuto essere dei facili bersagli, ma di muoversi piuttosto attraverso gli edifici, buttando giù all'occorenza i muri che intralciavano il loro percorso.
L'idea di Naveh fu lo strumento chiave con cui l'esercito schiacciò la resistenza armata palestinese, portando alla luce quali fossero gli ultimi posti dove i guerriglieri palestinesi potessero trovare rifugio dalla sorveglianza israeliana.
Un altro esperto, Yitzhak Ben Israel, ex generale riciclatosi professore alla Tel Aviv University, ha aiutato nello sviluppare una formula matematica che predice il verosimile successo dei programmi di assassinii mirati per stroncare la resistenza organizzata: i calcoli di Ben Israel hanno provato all'esercito israeliano che una cellula palestinese che sta preparando un attacco potrebbe essere con grande probabilità distrutta “neutralizzando” un quinto dei suoi membri.
E' proprio questa unione di teorie, equipaggiamenti e ripetuti “test” sul campo che hanno fatto mettere in coda gli eserciti, le forze di polizia e le industrie della sorveglianza di Stati Uniti, Europa, Asia e America Latina per riuscire ad accaparrarsi il know-how israeliano: le “lezioni” imparate sul campo a Gaza e in Cisgiordania hanno “utili” applicazione in Afghanistan e in Iraq, come spiega il film.
O come spiega nel film Benjamin Ben Eliezer, ex Ministro della Difesa riciclatosi in Ministro dell'Industria, il vantaggio di Israele in questo campo sta proprio nel fatto che “la gente è più disposta a comprare qualcosa che è stato positiviamente testato e la cui funzionalità è stata comprovata, come le armi israeliane. Possiamo dire che se Israele vende uno specifico armamento, la garanzia del funzionamento risiede nell'impiego che ne è stato fatto in questi 10-15 anni.”
Yoav Galant, capo delle milizie meridionali dell'esercito israeliano durante Piombo Fuso, ha sottolineato che “Mentre certi paesi europei e asiatici ci condannano per gli attacchi ai civili, mandano qui da noi i loro ufficiali; ho avuto briefing con generali di 10 differenti paesi per spiegargli come abbiamo fatto a raggiungere il così basso rapporto. [di palestinesi civili uccisi, falsa dichiarazione di Galant che diceva che la maggior parte dei palestinesi assassinati erano guerriglieri]” […] “C'è un sacco di ipocrisia, ti condannano politicamente, mentre poi ti chiedono quale sia il tuo trucco per trasformare il sangue in soldi.”
Le convincenti tesi del film, tuttavia, danno un amaro e disturbante messaggio a coloro che sperano nella fine dell'occupazione militare di Israele dei Territori Palestinesi, poiché siccome lo stato israeliano è riuscito a rendere i suoi arsenali più letali che mai e al contempo proteggere i suoi soldati come mai prima d'ora, la società civile è diventata grandemente tollerante all'idea della guerra come retroscena della vita di tutti i giorni: se Israele non è costretto a pagare alcun prezzo per una guerra, allora né l'esercito né i politici sono costretti ad affrontare alcuna pressione per porvi fine.
Anzi, la pressione agisce in direzione opposta: i Territori Occupati Palestinesi che fungono da laboratorio e gli attacchi periodici alle comunità palestinesi per testare ed esibire i sistemi bellici forniscono ad Israele un modello di business molto più profittevole di quello che potrebbe offrire un trattato di pace. Come ha dichiarato Naftali Bennet, Ministro dell'Industria di estrema destra, al ritorno da un suo viaggio in Cina: “Nessuno è interessato alla causa palestinese. Ciò che interessa al mondo, da Pechino a Washington a Brussels, è la tecnologia israeliana.”
Ma, coi governi stranieri che fanno la fila per attingere dall'esperienza israeliana, la domanda è: a chi di noi toccherà affrontare un prossimo futuro simile all'attuale situazione dei palestinesi?
Fonte: pacbi.org
Traduzione: BDS Italia