di Emma Mancini
Bloccato fino a marzo il trasferimento delle tasse a Ramallah. Confische di terre, regime dei permessi e controllo dei confini. La Palestina legata a doppio filo a Tel Aviv.
A stretto giro dal riconoscimento della Palestina come Stato non membro delle Nazioni Unite, il governo israeliano ha messo in atto la solita punizione: il congelamento del trasferimento delle tasse palestinesi nelle casse dell’Autorità Nazionale Palestinese.
Il 12 dicembre il ministro degli Esteri israeliano, Avigdor Lieberman, ha annunciato lo stop del trasferimento fino a marzo. Una consistente somma di denaro: secondo il Protocollo di Parigi del 1995, sono le autorità israeliane a raccogliere le tasse pagate dai palestinesi e a girarle in un secondo momento all’ANP. Cento milioni di dollari al mese, che il governo di Ramallah impiega in gran parte per pagare i salari dei circa 153mila dipendenti pubblici.
“I palestinesi se li possono dimenticare – ha commentato un mese fa il ministro Lieberman – Non avranno un solo centesimo nei prossimi quattro mesi. A marzo decideremo come procedere”. L’ennesima rappresaglia israeliana ha provocato l’immediata reazione dell’Unione Europea che ha duramente criticato Tel Aviv per il blocco dei fondi: “Gli obblighi contrattuali, tra cui il pieno trasferimento delle tasse, vanno rispettati”.
Eppure non si tratta della prima volta che Israele utilizza l’arma economica per fare pressioni politiche su Ramallah: il più recente congelamento del trasferimento delle tasse risale alla fine del 2011 quando l’agenzia delle Nazioni Unite, l’Unesco, riconobbe la Palestina come suo Stato membro e più tardi assegnò alla Basilica della Natività di Betlemme lo status di patrimonio dell’umanità.
La questione apre la strada ad una più approfondita analisi economica del conflitto israelo-palestinese. Dal 1967 in poi, Israele ha annichilito l’economia interna palestinese, rendendola completamente dipendente dalla propria. “Dal 1967, anno di inizio dell’occupazione militare israeliana, il governo di Tel Aviv ha avviato una serie di politiche volte a controllare l’economia interna dei Territori Palestinesi – ci spiega Basel Natsheh, professore di economia alla Hebron University – Quella palestinese è da sempre un’economia prettamente rurale. Per cui Israele da una parte ha avviato la confisca delle terre agricole e creato ostacoli legali alle imprese private, e dall’altra ha aperto il mercato del lavoro israeliano ai lavoratori palestinesi. In questo modo, moltissimi palestinesi sono stati costretti a lasciare le proprie attività agricole e hanno cominciato a lavorare all’interno di Israele, attirati anche da salari più alti”.
A ciò va aggiunto il carattere pervasivo del mercato produttivo israeliano: in pochi anni i prodotti israeliani, venduti a prezzi stracciati nei Territori, hanno occupato gli scaffali dei supermercati palestinesi. “Le famiglie della Cisgiordania sono state costrette ad acquistare i prodotti israeliani, perché meno costosi e più facilmente reperibili. Basti pensare che l’80% di frutta e verdura provengono da Israele o dalle colonie israeliane. Ciò ha provocato, a livello sociale e culturale, una convergenza negli stili di vita israeliano e palestinese, e un'ulteriore spinta all’abbandono della terra e della vita rurale”.
La situazione cambia con lo scoppio della Prima Intifada, nel 1987. Israele, nascondendosi dietro la necessità di garantire la propria sicurezza, impone le prime dure restrizioni al movimento dei palestinesi residenti nei Territori e il cosiddetto regime dei permessi, che troverà il suo apice con la costruzione del Muro. Nei primi anni dell’Intifada, sorgono i primi checkpoint ed entrare in Israele come lavoratori diventa sempre più complesso.
“Se all’inizio della Prima Intifada erano circa 130mila i lavoratori palestinesi impiegati nel mercato del lavoro israeliano – prosegue Natsheh – nel 1995, anno del famigerato Protocollo di Parigi, sono solo 30mila. La neonata Autorità Palestinese cerca quindi di tappare il buco: si registra una vera e propria impennata del numero dei palestinesi assunti come dipendenti pubblici del nuovo governo di Ramallah. Sono 80mila nel 1996, un numero doppio rispetto alle reali necessità dell’amministrazione. E oggi, nel 2013, sono 153mila. Troppi. Un modo per assorbire i disoccupati”.
Il Protocollo di Parigi, siglato dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e dallo Stato di Israele, si rivela presto un boomerang per Ramallah. Nato con l’obiettivo di regolare le relazioni economiche, in breve tempo si mostra per quello che davvero è: un ulteriore strumento nelle mani delle autorità israeliane per tenere a bada l’ANP e continuare a perpetrare l’occupazione economica dei Territori.
“Innanzitutto, si decide che la moneta ufficiale in Cisgiordania e a Gaza resterà lo shekel, la valuta israeliana – ci spiega il professor Natsheh – In questo modo, non solo Israele gode dei benefici derivanti dai consumi palestinesi, ma i Territori vengono afflitti dal tasso di inflazione israeliano, pur non vivendo nelle stesse condizioni economiche. Inoltre, ad Israele viene assegnata la gestione totale dei confini e quindi il controllo delle importazioni e delle esportazioni palestinesi e la riscossione delle tasse doganali: import ed export da e per i Territori diventano sempre più complessi e spesso le piccole imprese palestinesi ancora attive non riescono a reperire materiale di produzione”.
E attraverso il controllo del movimento delle merci, Israele impone ai Territori anche le attività produttive in cui può inserirsi. Ovvero, le imprese palestinesi possono esportare in Israele i propri prodotti solo se rispettano gli standard di qualità israeliani: standard elevatissimi, molto più rigidi di quelli europei, che nella pratica chiudono le porte alla produzione palestinese. Inoltre, Israele impone all’ANP di importare beni e prodotti solo dai Paesi con cui Tel Aviv ha stipulato un trattato di pace (come Egitto e Giordania), tagliando fuori i più economici mercati di Libano, Siria e Iran.
“Infine, le tasse. Con il Protocollo di Parigi, Israele raccoglie le tasse dirette ed indirette palestinesi (dalle bollette all’IVA fino ai contributi dei lavoratori) e li gira in un secondo momento al governo di Ramallah. Uno strumento di potere che, come abbiamo visto, trasforma la dipendenza economica in pressione politica”.
A ciò va aggiunto il controllo militare: attraverso l’occupazione della Cisgiordania e la confisca di terre, Israele sfrutta le risorse naturali palestinesi, l’acqua, le cave di pietra, gli appezzamenti agricoli, togliendo dalle mani delle famiglie palestinesi le tradizionali fonti di sostentamento. L’acqua, che scorre sotto i piedi dei palestinesi in Cisgiordania, viene rivenduta loro a prezzi esorbitanti; le terre vengono confiscate per la costruzione del Muro e delle colonie e molte diventano insediamenti agricoli gestiti esclusivamente da coloni israeliani (come accade in tutta la Valle del Giordano, l’area più fertile dei Territori Occupati).
“Se prima dello scoppio della Prima Intifada, nel 1987, il tasso di disoccupazione si aggirava intorno al 3% - continua il professor Natsheh – dagli anni Novanta in poi comincia a salire: oggi sfiora quota 27% in Cisgiordania e supera il 40% a Gaza. Ed ecco perché l’ANP ha da subito tentato di frenare l’aumento del numero di disoccupati, assorbendone una parte nelle proprie file. Questo è un tratto caratteristico della politica economica nazionale: Ramallah ignora la necessità di creare un’economia di produzione, fondamentale a renderci indipendenti da Israele, e preferisce farsi sostenere dagli aiuti internazionali concessi dai donatori esteri. Ciò non ha fatto che peggiorare il nostro stato di dipendenza economica, ha definitivamente ucciso il mercato interno palestinese”.
Oggi ben il 75% del budget a disposizione dell’ANP dipende dagli aiuti internazionali. Un’entrata variabile, fluttuante, che potrebbe venir meno in qualsiasi momento, come accaduto nel 2006: dopo le elezioni nei Territori e la vittoria del movimento islamista di Hamas, la comunità internazionale ha punito il popolo palestinese, tagliando per quasi due anni i fondi e provocando così una durissima recessione economica.
“Infine, l’abbandono da parte palestinese dell’economia di produzione e l’arrivo di migliaia di Ong straniere nei Territori ha provocato una crescita innaturale del settore dei servizi, a scapito di quello industriale e agricolo. Ciò ha anche prodotto la nascita di un’élite economica non produttiva che ha incrementato il gap economico e sociale con gli strati più bassi della popolazione palestinese”.
Fonte: L'Indro