Lo Special Rapporteur per i diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati presenta all'Onu un rapporto sulla responsabilità delle aziende collegate agli insediamenti israeliani. E invita la società civile al boicottaggio.
di Cecilia Dalla Negra
Nel sommario si legge che la relazione "affronta la questione del rispetto da parte di Israele dei suoi obblighi in base al diritto internazionale in relazione all'occupazione dei Territori Palestinesi". E fin qui, niente di nuovo.
Poi però specifica che lo fa "con particolare attenzione alla responsabilità legale delle compagnie, imprese, corporation e attori non statali che svolgono attività collegate agli insediamenti israeliani".
È datata 19 settembre 2012, e a firmarla è Richard Falk, inviato speciale delle Nazioni Unite nei Territori Palestinesi Occupati.
Che in 54 pagine di relazione non elenca solo le aziende che traggono profitto dall'occupazione e hanno legami economici con gli insediamenti;
ma, nel ricordare che questi sono illegali e che esistono regole da rispettare anche nel business, invita la società civile a "boicottarle finché non rimetteranno le loro attività in linea con il rispetto dei diritti umani e della legalità internazionale".
Queste le conclusioni di una relazione lunga e dettagliata che analizza la situazione sul terreno, non senza l'ammissione del fallimento generale a livello internazionale nel riportare Israele in una condizione di legalità, ponendo fine alla sua occupazione dei Territori.
Perché, ricorda Falk, "tutte le colonie di Israele in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, sono state costruite in palese violazione del diritto internazionale".
COLONIE: LO STATO DELL'ARTE
Nel rapporto si sottolinea che dal 1967 al 2010 sono state costruite circa 150 colonie, cui vanno ad aggiungersi 100 avamposti "autorizzati dal governo israeliano e da questo sostenuti sia finanziariamente che a livello di infrastrutture".
La popolazione coloniale si stima tra le 500 mila e le 650 mila unità, con un incremento di oltre 15 mila persone solo negli ultimi 12 mesi.
"Una seria escalation – secondo Falk – che confligge con la retorica politica di Israele quando afferma di sostenere la creazione di uno stato palestinese vivibile, sovrano e completamente indipendente".
Insediamenti che, in violazione della legalità internazionale – e dell'art. 49 della IV Convenzione di Ginevra in particolare – vengono tollerati e sostenuti da un governo che garantisce ai loro abitanti "privilegi speciali di cui i normali cittadini israeliani non godono, e che sono stati al centro delle proteste del 2011 a Tel Aviv e Haifa che chiedevano una maggiore giustizia sociale".
LE COMPAGNIE: UN BUSINESS "RESPONSABILE"
Lo Special Rapporteur ricorda che il 16 giugno 2011 il Consiglio delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, attraverso la risoluzione A/HRC/RES/17/4, ha approvato il documento "Global Compact and the UN Guiding Principles on Business and Human Rights".
Si tratta di una iniziativa politico-strategica elaborata affinché le aziende allineino le loro attività e operazioni con 10 principi universalmente accettati in materia di diritti umani, lavoro, ambiente e lotta alla corruzione.
Principi guida che forniscono uno standard globale di comportamento, per "prevenire e affrontare il rischio di effetti negativi legati alle attività delle imprese a livello internazionale".
"I principi guida parlano chiaro – sottolinea Falk – le aziende devono sostenere e rispettare la protezione dei diritti umani e assicurare di non essere complici di alcuna violazione in questo senso".
Le aziende insomma "non dovrebbero violare le disposizioni del diritto internazionale o essere complici di qualsiasi abuso. Se lo fanno, dovrebbero essere oggetto di responsabilità civile o penale".
È proprio sulla base di questo schema legale che si è mossa l'analisi di Falk, che nel passaggio successivo del rapporto (intitolato "Case studies") effettua una panoramica delle aziende implicate in qualche modo con le colonie israeliane.
Una lunga lista, che comunque "rappresenta solo una piccola parte di una gamma molto più vasta", come lui stesso sottolinea più volte.
UN ELENCO "PARZIALE"
Caterpillar, per prima. La nota azienda produttrice - tra le altre cose - dei bulldozer utilizzati per "distruggere abitazioni e piantagioni di ulivi palestinesi", coinvolta anche nella costruzione del muro di annessione israeliano, e per questo condannata da Amnesty International.
Nel profilo che ne traccia, l'inviato speciale non manca di ricordare che fu uno dei suoi bulldozer a uccidere Rachel Corrie a Gaza, schiacciandola mentre tentava di impedire l'abbattimento di una casa palestinese.
Un'azienda che, contravvenendo al suo stesso statuto in termini di politicamente corretto, "continua a ignorare le conseguenze delle sue attività", violando il suo stesso "esteso codice di condotta".
E ancora Veolia, la multinazionale francese che opera nel settore dell'acqua, del trasporto e dell'energia, implicata – tra le altre cose - nella costruzione dei collegamenti metropolitani tra Gerusalemme e "i suoi insediamenti illegali", e che possiede circa l'80% di Connex Jerusalem, l'azienda che gestisce i treni. Veolia ha sottoscritto i principi guida del Global Compact, e nel suo statuto sostiene di operare "in linea con il rispetto dei diritti fondamentali".
Si continua con la multinazionale britannica Group4Security, specializzata in servizi di sicurezza, che con la sua compagine israeliana fornisce equipaggiamento per i check point che rendono impossibile la vita ai palestinesi in Cisgiordania.
C'è poi il gruppo bancario europeo Dexia, che fornisce "consistenti prestiti negli insediamenti illegali", e la compagnia cosmetica Ahava, che produce prodotti di bellezza utilizzando le risorse naturali del Mar Morto.
Critiche alla Ahava sono arrivate da Ong, associazioni della società civile e governi perché "sfrutta le risorse naturali di un territorio occupato"; inoltre, è stata accusata di "pubblicità ingannevole" perché etichetta i suoi prodotti come "made in Israel", quando sono in realtà fabbricati in territorio occupato.
La lista prosegue con Hewlett Packard e Motorola (Usa), Volvo e Assa Abloy (Svezia), Elbit Systems e Mehadrin (Israele), Riwal Holding Group (Olanda) e Cemex (Messico).
Ed è solo una "piccola parte", si specifica, senza considerare la molteplicità di prodotti da supermercato che spesso arrivano sui mercati europei con l'etichetta "made in Israel", quando invece sono fabbricati all'interno di insediamenti illegali.
Solo una delle tante conseguenze dell'Accordo di Associazione Ue-Israele, che ne regola il commercio, privilegiando Tel Aviv e concedendogli il pagamento di dazi doganali favorevoli.
Tutte aziende e compagnie che, negli anni, sono state (e spesso sono ancora) oggetto di campagne internazionali di boicottaggio messe in atto da gruppi di attivisti in tutto il mondo. Spesso con successo.
Ma è proprio questo il passaggio più eclatante del rapporto: l'invito esplicito di Falk – di origine ebraica e docente di Diritto internazionale all'università di Princeton, con un mandato onorario e non retribuito – alla società civile perché porti avanti "energicamente iniziative di boicottaggio di queste compagnie".
LE CONCLUSIONI DEL RAPPORTO
"Tutte le compagnie che operano negli insediamenti o con questi fanno affari dovrebbero essere boicottate finché non riporteranno le loro attività pienamente in linea con il rispetto dei diritti umani", sostiene Falk.
"L'aver fallito in questi 45 anni nel riuscire a porre fine all'occupazione israeliana crea la responsabilità sempre più grande di sostenere i diritti umani del popolo palestinese, che in pratica vive senza la protezione dei principi di legalità", conclude Falk.
Come a dire che è finito il tempo della cortesia diplomatica, e che l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, in prima battuta, dovrebbe "applicare sanzioni economiche contro lo Stato di Israele per le sue attività illegali di colonizzazione".
Così come l'attuale "situazione di conflitto non solleva Israele dai propri obblighi internazionali" infatti, anche alle aziende "non può essere garantita immunità per le loro violazioni, solo per il fatto che operano in nome del business".
Immediata la reazione israeliana, che ha fatto parlare l'ambasciatrice Usa all'Onu, Susan Rice: "Questo appello è irresponsabile e avvelena l'atmosfera di pace", ha detto.
Quella stessa atmosfera che, nell'opinione americana, non sembra essere intaccata invece dalle 150 colonie illegali che Israele ha costruito su terra palestinese.
Consulta il rapporto completo.