di David Lloyd*
Il boicottaggio è, come molti ricordano con orgoglio, un'invenzione irlandese. Il primo boicottaggio prese di mira un noto agente immobiliare terriero, l'omonimo Capitano Charles Boycott, per aver tentato di sfrattare gli inquilini Mayo nel 1880. Ispirato dalla Land League, le popolazioni locali si rifiutarono di servire o lavorare per lui, rispondendo alla sua minaccia contro i loro mezzi di sostentamento con la rescissione dei legami sociali ed economici che avevano con lui. Il boicottaggio da allora è evoluto in un comune strumento nonviolento per ottenere un cambiamento sociale. Resta il mezzo più efficace attraverso cui la società civile chiede conto ai responsabili di violazioni di diritti fondamentali, in corso e tuttavia ancora rimediabili, tra cui in particolare le violazioni che minacciano la capacità di ogni comunità di riprodurre i propri mezzi di sostentamento e la sua sopravvivenza culturale. Funziona semplicemente rimuovendo o sospendendo i legami con gli autori, rifiutando di collaborare con le ingiustizie anche soltanto approvandole passivamente o "normalizzandole" attraverso l'inazione.
Soprattutto, il boicottaggio è uno strumento della società civile. Chiediamo un boicottaggio quando i mezzi per rimediare a un’offesa in corso sono negati dalle istituzioni legali o politiche che dovrebbero intervenire. Nel dicembre 2008, Israele lanciò il catastrofico assalto "Piombo fuso" su di Gaza – facendo poi lo stesso nel 2012 e nel 2014. Prima che fosse finito, Israele aveva ucciso circa 1.400 abitanti di Gaza, in gran parte civili che non avevano possibilità di nascondersi ne’ di fuggire. Al culmine di questo massacro indiscriminato, la Camera e il Senato degli USA approvarono una risoluzione a sostegno della campagna israeliana menzognera in quasi ogni sua clausola, compresa quella che accusava Hamas di questo assalto, a lungo pianificato e fuori da ogni proporzione. Solo quattro coraggiosi rappresentanti del Congresso dissentirono. Visto tale sostegno in blocco di Israele, proprio mentre l'esercito israeliano stava portando avanti quello che il rapporto Goldstone delle Nazioni Unite avrebbe poi stabilito essere una guerra criminale e assolutamente asimmetrica su di una popolazione imprigionata, è diventato evidente che le istituzioni americane - o europee - non potrebbero mai ritenere Israele responsabile senza una certa pressione di riequilibrio da parte dei movimenti sociali di base.
È per questo che, nel gennaio 2009, alcuni studiosi statunitensi hanno lanciato la Campagna USA per il Boicottaggio Accademico e Culturale di Israele che chiede la sospensione di ogni collaborazione con le istituzioni accademiche israeliane complici con l'occupazione e la discriminazione contro i palestinesi. Il boicottaggio, così come lo abbiamo inteso, non è semplicemente l'espressione del nostro profondo disgusto verso il massacro indiscriminato e violento di Israele. È, prima di tutto, una risposta alla chiamata da parte della società civile palestinese al boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele (BDS), rivolto non ai poteri che l’hanno costantemente e per decenni ignorata, ma alla società civile globale. Ci siamo impegnati ad aiutare a formare un movimento sociale che violi il blocco che Israele e le sue lobby ben finanziate hanno per generazioni mantenuto, impedendo il raggiungimento della giustizia per i Palestinesi. Quelle lobby sono riuscite a bloccare non solo il processo politico ma anche i media statunitensi che hanno costantemente mancato di descrivere con un minimo di accuratezza le sorti della Palestina e della sua gente. Di fronte a questo blocco alla giustizia e all'informazione, solo un movimento della società civile, abbiamo donchisciottescamente creduto, potrebbe alterare l'equilibrio dei poteri e portare a una pace giusta.
Il successo di ogni campagna di boicottaggio va misurato non tanto dall'impatto economico o sociale cui dà luogo quanto dalla trasformazione della consapevolezza pubblica che il processo della campagna stessa produce. Il movimento di boicottaggio ha già raggiunto sorprendenti e inaspettati successi in diversi ambiti, dall’adesione al boicottaggio accademico da parte di organizzazioni professionali come l'American Studies Association o il Sindacato degli Insegnanti dell'Irlanda al blocco delle navi israeliane nei porti degli Stati Uniti durante l’attacco a Gaza del 2014, alla campagna internazionale per ottenere la sospensione dei progetti della multinazionale francese Veolia nella Palestina occupata. Ma benché questi successi siano stati salutati con entusiasmo, il loro effetto sull'economia israeliana o sulla potenza del suo esercito resta ancora limitato. Quello che hanno ottenuto è qualcosa di diverso, una trasformazione in corso della consapevolezza pubblica di ciò che è il sistema politico israeliano e il regime di occupazione. Nel successo o nel fallimento, le campagne di boicottaggio operano principalmente attraverso l’educazione delle persone - nelle chiese, nelle scuole e nelle università, nelle riunioni sindacali - circa la realtà dell’occupazione e discriminazione che i palestinesi subiscono quotidianamente. A poco a poco, cresce la percezione che l'occupazione non è una difesa contro terroristi intransigenti, ma un'annessione illegale che espropria una popolazione indigena delle sue terre e dei diritti fondamentali, e che Israele stesso non è un bastione democratico nel Medio Oriente, ma uno stato fondamentalmente razzista. Come, infatti, può uno stato con più di cinquanta leggi che discriminano la propria minoranza palestinese essere considerato una democrazia?
Verità su Israele in precedenza inattaccabili sono crollate negli ultimi anni, non perché la loro falsità non fosse evidente a tutti coloro che si preoccupavano di fare qualche ricerca (basta leggere il defunto Edward Said), ma perché il movimento di boicottaggio ha generato dibattiti che hanno diffuso informazioni in una serie senza precedenti di luoghi, anche all'interno del perimetro del Partito Democratico degli Stati Uniti. Forse l'indice più significativo degli effetti del movimento di boicottaggio globale è il fatto che lo stato di Israele ha elevato il BDS al rango di grave minaccia strategica. Il risultato non è stato un ulteriore rinvigorimento del dibattito, ma uno sforzo sponsorizzato da Israele - soprannominato "lawfare" - per mettere fuori legge la promozione del movimento di boicottaggio. E 'già successo in Francia e numerose leggi anti-BDS sono allo studio in legislature statali qua e là negli Stati Uniti. Altre tattiche includono la manovra insidiosa di definire le critiche di Israele come anti-semite o il tentativo di imporre sanzioni punitive sui movimenti studenteschi o entità civili e commerciali che approvano il boicottaggio. A uno dei membri fondatori della campagna palestinese, Omar Barghouti, è stato negato il diritto di viaggiare e la sua vita minacciata da ministri del governo israeliano. Nuove forme di repressione sui sostenitori del BDS, all'interno e al di fuori di Israele, continuano a comparire. Ma questi atti sempre più virulenti di censura rivelano solo una cosa: che il regime israeliano di occupazione, espropriazione e discriminazione è indifendibile. Coloro che non riescono a difendere un sistema alla luce del dibattito pubblico devono ricorrere alla forza, legale o altrimenti, per soffocare il dibattito. Ma la coercizione è un argomento assai povero e, ironia della sorte, lo stesso sforzo di censurare funziona come un megafono che diffonde le ragioni che intende sopprimere.
Nel frattempo, la vita quotidiana dei palestinesi è un noioso labirinto di ostacoli giuridici e fisici, dalle centinaia di posti di blocco e le chiusure delle strade che trasformano i viaggi di dieci minuti in trekking lunghi ore verso il regime di permessi che rende ogni singolo progetto, dalla vendemmia ai viaggi medici, un incubo di dinieghi arbitrari; dal fondato terrore del leader degli studenti di una "detenzione amministrativa" che può essere rinnovata indefinitamente all'ansia del professore di incursioni imprevedibili ma ricorrenti nel campus; dall'annessione di terre di una comunità per gli insediamenti illegali che ovunque dominano il paesaggio alla minaccia quotidiana di molestie e violenza da parte dei coloni protetti dai militari israeliani. Ciò che è sorprendente non è l’occasionale reazione violenta di sfogo da parte di chi è sistematicamente oppresso, ma l'esercizio pervasivo della pazienza e della perseveranza che i palestinesi mostrano in condizioni di vita umilianti e frustranti inimmaginabili.
Durante un recente viaggio in Palestina, in cui abbiamo incontrato studiosi e studenti palestinesi di oltre una decina di istituzioni in Israele e in Cisgiordania, i miei colleghi ed io abbiamo assistito allo sgomento dei nostri pari per ciò che essi definiscono “localizzazione”: l'effetto cumulativo delle restrizioni israeliane alla libertà di movimento palestinese e l'interferenza con il diritto degli stranieri di viaggiare liberamente da’ luogo alla crescente frammentazione della vita intellettuale a tutti i livelli. Gli studenti provenienti da Hebron, nel sud, ora raramente frequentano la Bir Zeit University vicino a Ramallah: quello che sarebbe soltanto un'ora di viaggio se gli insediamenti e le autostrade dei coloni non si protendessero nella terra palestinese, ora richiede diverse ore a causa di deviazioni lungo tortuose strade di montagna costellate da posti di blocco. In quei posti di blocco, il pericolo della violenza militare può esplodere in qualsiasi momento, soprattutto per i giovani palestinesi. A nord, la Palestine Technical University di Tulkarem, l'unica università libera e pubblica in Palestina, è utilizzata per servire gli studenti provenienti da tutta la Cisgiordania e anche da Israele. Quasi ogni giorno l'invasione del campus da parte dell'esercito israeliano ha reso permanentemente disabili venti studenti e ferito altre centinaia, a volte con proiettili esplosivi o a punta vuota i cui effetti sono ancora evidenti in una studentessa e un tecnico disabili circa sei mesi dopo il fatto. A causa di queste minacce mortali l'università ha perso una percentuale elevata dei suoi studenti provenienti da fuori della regione settentrionale che lì non si sentono più al sicuro. Una studentessa all'Università di Betlemme ci ha detto che la prima volta che ha mai incontrato uno studente palestinese di qualsiasi luogo fuori della sua area circostante è stata quando è riuscita a partecipare a un programma di studio negli Stati Uniti. Pochi studenti palestinesi sono così fortunati. Lei è stata uno dei pochi a sopravvivere alla corsa a ostacoli che scoraggia la maggior parte dei palestinesi - gli studenti soprattutto maschi - dalla ricerca di tali opportunità.
La localizzazione distrugge i principi cosmopoliti che informano qualsiasi università, impedendo la circolazione vitale delle persone e delle idee su cui prosperano vita intellettuale e cultura. È quasi impossibile per le università palestinesi ospitare studiosi internazionali per insegnare per un semestre completo, poiché i visti turistici israeliani scadono dopo tre mesi e non vi è alcuna garanzia di rinnovamento. I visti di lavoro sono raramente concessi anche - o soprattutto - agli insegnanti, e quindi, al fine di rimanere per un semestre o più, il visiting scholar deve rischiare o mentendo o trattenendosi irregolarmente. Gli studiosi e gli studenti palestinesi sono fortemente toccati da questa mancanza di accesso a un mondo di ricerca, archivi e apprendimento. La Palestina è sempre stata una società con alti livelli di alfabetizzazione e una ricca cultura artistica e intellettuale. Il regime israeliano di occupazione sta costantemente distruggendo sia quella ricca eredità sia i sogni e le visioni dei giovani palestinesi. Come ci ha detto Mariam, un’altra studentessa all'Università di Betlemme: "Non osiamo piu’ sognare. Se hai sogni che non puoi realizzare, non puoi vivere con te stesso."
Ilan Pappe ha parlato eloquentemente del "genocidio incrementale" che Israele sta infliggendo a Gaza. Lo strangolamento che l'occupazione impone alla vita palestinese a Gerusalemme Est e in Cisgiordania può essere intesa o no come un mezzo di pulizia etnica, ma è certo che l'effetto della fitta rete di norme e restrizioni rende la vita a poco a poco intollerabile. Quasi ogni studioso o studente palestinese con cui abbiamo parlato ritiene che l'intenzione malvagia di pulizia etnica sia evidente nelle condizioni a loro inflitte, che spingono chi può a lasciare. Questa è la violenza strutturale che è la condizione essenziale per le esplosioni di violenza letale che ogni tanto riportano i media occidentali. Quello che soffrono le università è solo un microcosmo dell'impatto dirompente della repressione e della spoliazione della società palestinese nel suo complesso. L'impatto della localizzazione non colpisce soltanto loro, ma la cultura palestinese nel suo complesso. Un tempo la Palestina era il fulcro di idee, merci e persone che circolavano attraverso l’Asia occidentale e il Nord Africa: come ci ha ricordato un professore a Betlemme, l'antica via carovaniera passava da Gerusalemme attraverso Betlemme a Hebron e oltre. Ora lui non può nemmeno fare i venti minuti di viaggio da Betlemme alla sua ex casa di famiglia a Gerusalemme senza un permesso speciale. Il regime di Israele ha quasi immobilizzato un popolo che una volta era parte integrante di una civiltà cosmopolita basata sul movimento e il commercio.
Noi irlandesi dovremmo sapere cosa vuol dire subire la perdita di una terra e di una cultura, essere costretti a una vita di emigrazione che è stata recentemente ribattezzata come "diaspora". La conoscenza di ciò che è dover lasciare senza una reale speranza di ritorno è radicata nella nostra memoria collettiva. Le condizioni dei palestinesi, nella Palestina storica e nella diaspora, sono di gran lunga peggiori, costretti come sono stati a subire spesso esili successivi e a vedersi negato il diritto al ritorno dalle leggi israeliane che proteggono una artificiale maggioranza ebraica contro una popolazione indigena soprannominata una "minaccia demografica". Eppure essa persiste e si rifiuta di essere espulsa senza lottare. Le potenze internazionali l’hanno abbandonata decennio dopo decennio. Israele continua il suo regime punitivo e razzista di occupazione ed espropriazione che è di volta in volta brutalmente violento e sorprendentemente orrendo nella sua preoccupazione di infliggere meschine umiliazioni. Finora lo ha fatto con totale impunità. Tuttavia, come quasi ogni palestinese ci ha detto, il BDS è l'ultima forma di resistenza non violenta che rimane a loro e, come tale, offre i mezzi più promettenti per raggiungere la pace con giustizia di fronte a una situazione in continuo peggioramento.
Eppure il boicottaggio non è una tattica che i palestinesi sotto occupazione o in Israele possono applicare in modo molto efficace da soli. È, piuttosto, una tattica che chiedono alla società civile internazionale di implementare. Ci chiedono di rispondere alla loro chiamata. Se non lo facciamo, in virtù della nostra inazione anche noi saremo complici della distruzione lenta e deliberata della società e della cultura palestinese e con la violenza quotidiana che in modo incrementale e malvagio persegue la loro eliminazione.
* David Lloyd, di origini irlandesi, è Distinguished Professor di inglese alla University of California, Riverside. Leader del movimento BDS, in risposta alle accuse che il boicottaggio è una violazione della libertà accademica, Lloyd ha risposto, "Le istituzioni israeliane sono complici di immense violazione della libertà accademica palestinese, quindi è davvero difficile, mi sembra, per le istituzioni israeliane rivendicare i diritti di libertà accademica che continuano così sistematicamente a negare alle loro controparti palestinesi.”
Fonte: Dublin Review of Books
Traduzione di BDS Italia