Intervista a Nora Barrows-Friedman, autrice di “In Our Power: US students organize for justice in Palestine”. Le testimonianze di chi, nei campus, sostiene il Bds e la causa palestinese e il ruolo della mobilitazione internazionale.
di Stephanie Westbrook
L’offensiva israeliana contro i movimenti di solidarietà con la Palestina, dove di recente si è vista una nuova escalation, prende di mira in particolare le attività degli studenti nei campus universitari. Nel libro In Our Power: US Students Organize for Justice in Palestine (Just World Books) di Nora Barrows-Friedman si spiega perché il movimento studentesco per la Palestina negli Stati Uniti sia al centro dell’attenzione di Israele.
Barrows-Friedman, giornalista ed Associate Editor per l’Electronic Intifada, fa raccontare il movimento attraverso la voce diretta degli studenti che lo guidano. Viaggiando per tutti gli Stati Uniti, ha raccolto 63 interviste presso una trentina di università. Quello che traspira dalle pagine del libro sono l’energia e la determinazione degli studenti, nonostante i tentativi di ostacolare il movimento da parte di ben finanziate organizzazioni sioniste.
Le parole degli studenti, che raccontano delle decisioni di impegnarsi, degli attacchi subiti, dei traguardi raggiunti e delle lezioni imparate, rendono vivi momenti di passione, di fermezza ma anche di difficoltà. Intrecciato tra le testimonianze degli studenti, Barrows-Friedman fornisce il contesto sia negli Stati Uniti che in Palestina, documentando le politiche coloniali e d’Apartheid di Israele, le complicità di imprese e istituzioni accademiche e le potenti forze impegnate a sconfiggere il movimento.
Mentre il libro si incentra sugli anni più recenti, spazio è dato anche alla ricca storia delle mobilitazioni studentesche per la Palestina negli USA, in particolare da parte di immigrati palestinesi, sin dai primi decenni del Novecento, con l’intensificarsi della colonizzazione sionista della Palestina storica, ad oggi.
Il libro funziona anche da guida, sia nel senso di presentare una panoramica delle mobilitazioni studentesche sia nel fornire consigli, dagli studenti stessi, su come costruire movimenti e campagne sostenibili ed efficaci e, per chi non è più studente, su come sostenere e creare spazi per gli studenti.
Colpisce l’ultimo capitolo in cui gli studenti definiscono cosa vuol dire per loro la “solidarietà”. Alex Abbassi, palestinese all’Università di Harvard, spiega che per lui vuole dire esistere per “continuare le tradizioni” della sua cultura, resistere “attraverso i movimenti per la giustizia sociale” e amare, alla faccia di chi “vuole renderci non-esseri”.
In un’intervista telefonica, Barrows-Friedman racconta il movimento al centro del libro.
Puoi raccontare gli ultimi anni delle mobilitazioni studentesche?
Negli anni più recenti, fino a 15 anni fa, era tutto incentrato sulla cultura, su iniziative informative, per far conoscere la Nakba, l’occupazione, i diritti dei palestinesi. Però i gruppi erano isolati, non collegati tra di loro o con altre organizzazioni.
Durante la Seconda Intifada, i gruppi studenteschi hanno deciso invece di puntare più sulle azioni dirette, volevano organizzarsi in modo diverso dalla generazione dei loro genitori. A San Francisco, per esempio, gli studenti hanno occupato gli uffici dell’amministrazione dell’università, chiedendo il disinvestimento.
Oggi il movimento è in forte crescita. Come è organizzato quello attuale?
Dopo la Seconda Intifada, ci sono state un paio di assemblee nazionali tra studenti per la Palestina, ma era una rete informale. Con la creazione di una struttura nazionale, Students for Justice in Palestine (SJP), non solo si sono uniti i vari gruppi sotto lo stesso ombrello ma si sono anche aperte le porte a studenti di tanti diversi etnie, ovviamente palestinesi, ma anche arabi, persone di colore, ebrei, e così via. Giovani studenti arrivavano all’università senza una preparazione politica e scoprivano un mondo e il mondo attraverso l’attivismo, i movimenti anti-razzisti, per i diritti LGBTQ, diventando poi attivisti ed esponenti dei movimenti stessi.
Da allora SJP è cresciuto in maniera costante. Alla prima conferenza nazionale del 2010 c’erano 60-70 gruppi locali, attualmente ce ne sono 150.
In che modo si impegnano gli studenti?
Si lavora soprattutto sulla campagna per il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS) contro Israele. Già da qualche anno prima dell’appello palestinese nel 2005, i gruppi studenteschi chiedevano il boicottaggio e il disinvestimento. Però l’appello palestinese gli ha permesso di mettere al centro del loro lavoro il BDS e di inserirsi in un contesto globale. Continuavano ad organizzare iniziative informative, ma ora c’era un modo concreto per coinvolgere gli altri studenti.
Negli ultimi due anni, ci sono state circa 25 mozioni per il disinvestimento presentate ai consigli studenteschi delle università USA. Prima di presentare una mozione, gli studenti lavorano per mesi e mesi, facendo ricerche sulle complicità della propria università con le violazioni di Israele, in modo da elaborare una mozione in grado di superare la prova, e per costruire ampie coalizioni per sostenerla.
Circa la metà di queste 25 mozioni sono state approvate. Ma anche le mozioni che non vengono approvate sono comunque una grande vittoria che preoccupa Israele, perché si sensibilizza e si crea un grande dibattito all’interno dell’università e nella comunità locale sulla Palestina e sulle politiche di Israele.
Poi ci sono le azioni dirette volte ad informare e sensibilizzare in modo efficace e creativo, spesso in vista di una mozione di disinvestimento. Per esempio, in diverse università, gli studenti hanno distribuito nei dormitori finti avvisi di sgombero, facsimili di quelli che ricevono i palestinesi in caso di demolizione o trasferimento forzato.
Nonostante in fondo al foglio ci fosse scritto che non si trattava di un vero avviso, spiegando che era ciò che subiscono i palestinesi quotidianamente, queste azioni sono state attaccate da gruppi filo-sionisti. Hanno lanciato infondate accuse di aver preso di mira studenti ebrei, oppure denunciandole per aver fatto sentire “a disagio” gli studenti ebrei, mentre a far parte delle azioni c’erano proprio tanti studenti ebrei.
Come hanno lavorato gli studenti per unire le lotte?
È successo in modo naturale e spontaneo. Il movimento studentesco per la Palestina ha cominciato a collaborare con altri gruppi di persone emarginate, persone di colore, immigrati, lavorando insieme contro le politiche razziste, per i diritti degli immigrati negli USA e per i diritti dei palestinesi, creando un vero contesto di solidarietà tra popoli oppressi.
Negli USA esiste un forte razzismo istituzionalizzato contro gli afroamericani e ci sono sempre stati legami con i movimenti per la Palestina. Ma negli ultimi anni, con il movimento #BlackLivesMatter, si sono intensificati. Ci sono anche forti legami con i movimenti latino e chicano, in particolare negli Stati che confinano con il Messico. Nel 2012, Il Movimiento Estudiantil Chicano de Aztlán, il più grande gruppo di studenti latin*s negli USA, ha aderito al BDS.
Il risultato di questo unire le lotte si vede anche nei 30-40-50 gruppi che sostengono le mozioni per il disinvestimento in ogni campus. E questo fa paura a Israele, vedere il movimento per la Palestina unirsi ad altri movimenti.
L’offensiva contro i movimenti di solidarietà alla Palestina ha posto grande attenzione sull’attivismo nei campus universitari. Che cosa vuol dire sull’impatto del movimento studentesco?
Il fatto che miliardari come Adelson e Saban hanno raccolto milioni di dollari per combattere il BDS, oltre ai corsi di formazione anti-BDS di Israel on Campus e dell’Israel Action Network che si sono svolti questa estate, significa che si stanno versando quantità assurde di denaro e risorse nella lotta contro un movimento che non si arrenderà. Quello che sta succedendo è che la solidarietà alla Palestina sta diventando mainstream nei campus e questo sta causando panico. Così, nella grande tradizione USA, per influenzare le problematiche, stanno buttando ancora più soldi, e allo stesso tempo tentano di intimidire e criminalizzare il movimento.
Ci saranno delle lotte molto intense, grandi battaglie, battaglie di propaganda, viziose, odiose, forse anche violente, ma resta il fatto, non importa quanti soldi saranno spesi, il movimento sta diventando sempre più forte.
E che cosa significa tutto ciò per quanto riguarda l’impatto del movimento? Beh, vuol dire che, con poco o niente in termini di risorse, organizzandosi tra lezioni ed esami, dovendo affrontare attacchi costanti, il movimento studentesco è stato uno straordinario successo. Questi disparati gruppi di studenti fanno tremare Israele e le organizzazioni ben finanziate che lo sostengono. E questo è significativo e importante.
Cosa fanno le organizzazioni pro-Israele per ostacolare il movimento?
C’è un forte mobilitazione negli USA, e nel mondo, di equiparare il giudaismo e il sionismo, in modo da mettere a tacere qualsiasi critica ad Israele, nonostante il fatto che ci siano tanti ebrei antisionisti che si impegnano e sono leader dei movimenti per la Palestina.
Ci sono anche iniziative per far adottare dalle università una posizione secondo la quale criticare Israele è antisemitismo oppure di convincere l’amministrazione dell’università che quel professore dovrebbe essere licenziato, che quel corso non si dovrebbe svolgere.
Negli USA sono tanti i tentativi di criminalizzare i movimenti per la Palestina. Per esempio, nel 2010 alcuni studenti hanno interrotto il discorso dell’allora ambasciatore israeliano Michael Oren all’Università della California – Irvine. Per questo sono stati processati e condannati per aver violato il diritto di libertà di parola dell’ambasciatore!
Come si sono organizzati gli studenti per affrontare gli attacchi?
In parte, il costante gridare “al lupo al lupo” e i quotidiani tentativi da parte di grandi lobby pro-Israele di equiparare le critiche ad Israele all’antisemitismo, hanno fatto sì che sono in pochi a prenderli sul serio, solo i politici che hanno paura di perdere il sostegno economico. Gli studenti stanno facendo un lavoro eccezionale nel rispondere alle false accuse e nel criticare il discorso dell’establishment, rifiutando le accuse di antisemitismo, ribadendo volta dopo volta la natura anti-razzista del movimento, il coinvolgimento di ebrei, e così via.
Tanti gruppi, tra quelli studenteschi, per i diritti civili, per i diritti umani, per la libertà di espressione, Jewish Voice for Peace, si sono uniti per contrastare questa idea assurda che criticare le politiche di Israele equivale all’antisemitismo, per dire che è inaccettabile.
A luglio c’è stata una importante vittoria su questo all’Università della California, che comprende 13 campus, la quale ha rifiutato questa equiparazione.
Esiste anche un’importante organizzazione, Palestine Legal, un gruppo di cinque avvocati dedicati a difendere gli studenti, e anche i docenti, dagli attacchi e a difendere il loro diritto alla libertà di espressione e alla libertà accademica. È un aiuto enorme per gli studenti sapere che non devono affrontare questi attacchi da soli.
Come lavorano gli studenti statunitensi con i loro colleghi in altre parti del mondo?
Stiamo iniziando a vedere al riguardo sempre più iniziative. Anche se dobbiamo considerare che i gruppi di studenti hanno risorse limitate, per cui la loro attenzione tende ad essere locale. Ma vediamo azioni congiunte con studenti in Europa, unendosi a coalizioni già esistenti come per le campagne contro Sodastream e G4S. Gli studenti si stanno collegando con i più ampi movimenti contro l’industria dell’incarcerazione e dell’outsourcing dell’oppressione, condividendo le conoscenze con gruppi di studenti in Europa e in Sud Africa, imparando dalle reciproche strategie e tattiche. È qualcosa di speciale che sta crescendo. C’è ancora molta strada da fare, ma con i social media, è più veloce organizzarsi al di là dei confini nazionali.
Non sono solo gli studenti, ma anche docenti e studiosi che sempre più spesso prendono posizione sulla Palestina negli Stati Uniti. Come interagiscono gli studenti e i docenti?
La stessa caccia alle streghe contro gli studenti prende di mira anche gli accademici, per avere inserito un libro sulla Palestina nel loro programma del corso o per aver espresso sui social media la loro indignazione per gli attacchi israeliani a Gaza, come ad esempio il caso di Steven Salaita, licenziato dall’Università dell’Illinois per alcuni tweet. Ma proprio perché la campagna contro il suo licenziamento è stata così globale e così pubblica e Salaita è stato così fermo, rifiutando di auto-censurarsi, rifiutando di rispettare i limiti imposti dal sistema universitario corporativo degli USA, ha dato sostegno e forza ad altri ad alzare la voce, di non cedere e continuare a insegnare nel modo in cui desideravano.
E così nel mondo accademico sono ancora più motivati e impegnati a mantenere la pressione per consentire che la libertà accademica continui ad esistere. Vedere come reagisce il sistema universitario corporativo, e l’influenza dei donatori pro-Israele, rende ancora più chiaro quanto sia importante alzare la voce nei confronti del potere. Fare ciò nel mondo accademico non è facile, in particolare per docenti fuori ruolo. Sono letteralmente sotto controllo. Ma cresce sempre di più il numero di quelli che alzano la voce, e così creano un ambiente in cui altri se la sentono di farlo. Inoltre, i docenti vedono i loro studenti diventare sempre più determinati e immuni agli attacchi.
È un periodo davvero difficile per docenti e studenti, ma è anche un momento molto interessante per alzare la voce sulla Palestina nei campus.
Fonte: Nena News