di Enrico Bartolomei
«Ed è la falsa accusa di antisemitismo spesso rivolta da Israele e dai suoi sostenitori come tattica di intimidazione contro chiunque critichi le politiche israeliane o il sionismo che ci spinge ad alzare la nostra voce di dissenso, identificandoci come ebrei»
Rete italiana degli ebrei contro l’occupazione
Lunedì 27 luglio Il Fatto Quotidiano ospita il “commento” di Furio Colombo a Gaza e l’industria israeliana della violenza, edito da DeriveApprodi (2015), e di cui sono co-autore insieme a A. D. Arcostanzo, D. Carminati e A. Tradardi. La sfuriata del Colombo, che quando non tratta di Israele è conosciuto per la mitezza del suo ragionare, non poggia su argomentazioni di merito, ma ripete uno schema ormai consolidato di propaganda filo-israeliana che implica l'uso dell'antisemitismo come arma ideologica per delegittimare ogni critica a Israele e al sionismo.
Visto il peso dell’accusa, e una certa ricorrenza dello schema della propaganda nei mezzi d’informazione italiani, prima replichiamo alle ingiurie e poi sveliamo il funzionamento della macchina propagandistica attraverso l’esempio di Furio Colombo.
Un saggio antisemita?
Colombo afferma che Gaza e l’industria israeliana della violenza uscirebbe «dalla fonte inesauribile dell’odio contro Israele e gli ebrei». Sarebbe bastato sfogliare qualche pagina per capire che tra le fonti del saggio ci sono autorevoli organizzazioni per i diritti umani, intellettuali, giornalisti e accademici israeliani o di cultura ebraica. Insomma, non proprio un classico dell’antisemitismo.
Il libro conterebbe inoltre sulla ripetizione di un’unica verità: «Israele è portatore di una perfidia assassina che non ha alcuna ambientazione di tempo o di luogo, non dipende da fatti politici e neppure da eventi o da governi». Anche qui, fin dall’introduzione introduciamo due schemi interpretativi fondamentali per capire la natura del sionismo e le radici storiche del regime israeliano.
Primo: il sionismo è un movimento coloniale di insediamento che ha l’obiettivo di costruire una società di coloni al posto della società indigena e di erigere una fortezza impenetrabile che separi la colonia dai suoi vicini arabi. Recentemente è emerso un fiorente campo di studi che inquadra Israele all’interno delle altre esperienze di colonie europee di insediamento - l’Australia, gli Stati Uniti, il Canada, la Nuova Zelanda e così via - rigettando qualsiasi pretesa di unicità o di eccezionalità.
Secondo: la Striscia di Gaza rappresenta lo stadio più avanzato di un processo di concentramento dei palestinesi applicato in fasi diverse e con modalità differenti anche in Cisgiordania – la «matrice di controllo» descritta dall’antropologo israeliano Jeff Halper - e in Israele – le politiche segregazioniste dell’«etnocrazia» israeliana analizzate dal geopolitologo israeliano Oren Yiftachel.
La formula sionista della «massima quantità di territori con una minima presenza di arabi», applicata storicamente attraverso le ondate di espulsione e i massacri di palestinesi, a Gaza si declina come «massima concentrazione di arabi nella minima quantità di terra» oppure come «massimo controllo sulla terra con la minima responsabilità sulla popolazione». Gaza è un luogo in cui attraverso l’amministrazione burocratica della sopravvivenza vengono radicalmente alterate le condizioni della vita umana allo scopo di ridurre gli internati allo stato di «nuda vita».
Colombo si avvicina alla verità quando afferma che «tutti gli episodi di guerra e violenza di Israele vengono mostrati come una prova continua di vocazione al massacro». Israele infatti, per dirla con lo storico australiano Patrick Wolfe, in quanto colonia di insediamento è strutturalmente e ideologicamente portato all’eliminazione dei nativi palestinesi. Questa vocazione genocidaria è stata colta da molti analisti, tra cui lo storico israeliano Ilan Pappé, che ha parlato di «genocidio incrementale nel ghetto di Gaza», o il sociologo statunitense William Robinson, secondo il quale l’espulsione dei palestinesi dall’economia israeliana li ha resi «umanità in eccesso» e quindi esposti al crimine di genocidio.
D’altronde, nel campo politico israeliano gli appelli al genocidio dei palestinesi sono sempre più frequenti, tanto da spingere 327 sopravissuti e discendenti di sopravvissuti allo sterminio nazista a pubblicare una lettera aperta sul New York Times del 25 Agosto 2014 in cui denunciano «l’estrema disumanizzazione razzista dei palestinesi nella società israeliana», invitando ad alzare la voce per «porre fine a tutte le forme di razzismo, incluso il genocidio in corso del popolo palestinese». Anche l’autorevole Tribunale Russell, formato da esperti e giuristi di diversi paesi, nel settembre 2014 ha rilevato prove di crimini contro l’umanità e di incitamento al genocidio a Gaza.
Ancora. Colombo riconosce che il libro non altera i fatti, e rendiamo grazie alla sincerità, ma è costruito in modo da «assemblarli come un film nel quale Hamas … viene vista come associazione di solidarietà e mutuo soccorso». Certo avanziamo una critica molto severa dell’operato dell’Autorità nazionale palestinese, della farsa del processo di pace e dell’industria degli aiuti ad esso connessa. Tuttavia, liquidare Hamas come «una delle più importanti filiali di terrorismo del mondo» appare a dir poco riduttivo, quando non tradisce un pregiudizio di fondo. Bisogna invece tener conto della storia di un’organizzazione che pratica la lotta armata, ricorrendo anche agli attentati suicidi, ma che è capace di darsi una struttura politica di massa e di radicarsi nella società grazie alla creazione di una vasta rete assistenziale, fattori che spiegano la sua vittoria alle elezioni del gennaio 2006.
Infine, l’accusa più infamante: «Il testo è scritto con un evidente richiamo al “Protocollo dei Savi di Sion”», il classico della letteratura cospirazionista che rivelerebbe un piano ebraico di dominazione mondiale. La calunnia è rivolta alle parti del saggio in cui si espone il ruolo di primo piano che Israele riveste nella progettazione di armi, tecnologie di sorveglianza e modalità di controllo sperimentate sui palestinesi e successivamente commercializzate nel resto del mondo, temi sollevati peraltro dalla Rete internazionale ebraica antisionista nel prezioso opuscolo Il ruolo di Israele nella repressione a livello mondiale. Nel saggio smascheriamo le «connessioni israeliane», per citare lo psicologo israeliano Benjamin Beit-Hallami, con una lunga lista di regimi dittatoriali e di forze reazionarie.
L’accusa di antisemitismo come strumento di propaganda
Furio Colombo è il Presidente di Sinistra per Israele, un’associazione che si propone di «contrastare i pregiudizi anti-israeliani, antisionisti e talora perfino antisemiti che albergano anche in una parte consistente della sinistra italiana». Il lavoro di questa associazione è duplice e riflette il funzionamento della macchina propagandistica filo-israeliana: da una parte ripropone i soliti miti ormai logori su Israele “unica democrazia” del Medio Oriente, Arafat come “principale responsabile” del fallimento dei negoziati, l’esistenza di un “campo della pace” in Israele, la mancanza di democrazia nella società palestinese come ostacolo alla pace, ecc.) dall’altra procede all’equiparazione tra antisionismo e antisemitismo allo scopo di bollare ogni critica a Israele e al sionismo con il marchio dell’antisemitismo.
Nel Manifesto dell’associazione, presentato a Roma il 23 novembre 2005 dal segretario dei Democratici di sinistra Piero Fassino e dall'ex direttore dell'Unità Furio Colombo, si legge: «Sinistra per Israele ritiene storicamente sbagliata e moralmente non accettabile ogni equiparazione del sionismo al razzismo», con buona pace della risoluzione 3379 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che equiparava il sionismo a «una forma di razzismo e di discriminazione razziale» (poi revocata nel 1991 come condizione israeliana per la partecipazione al cosiddetto “processo di pace”). Addirittura si ha la sfrontatezza di presentare il sionismo come movimento di liberazione nazionale: «il sionismo ha le stesse radici di reclamo della patria per un popolo, che ha avuto il Risorgimento italiano e gli altri movimenti europei di fondazione e unificazione nazionale». È notevole a sinistra l’adesione al Manifesto di intellettuali (Umberto Eco, Adriano Sofri, Gad Lerner, Gustavo Zagrebelsky) e personalità politiche di primo piano (Walter Veltroni, Giuliano Amato, Enrico Boselli, Giuseppe Caldarola).
Ne La fine di Israele, del 2007, Colombo si sforza di conquistare la sinistra italiana alla causa israeliana. L’intento del saggio, che contiene una serie di imbarazzanti sciocchezze storiche, è stato rivelato da Gianluca Bifolchi su Tlaxcala: «si prendono parole come Olocausto, Resistenza, Risorgimento, Sionismo, gli si dà una bella shakerata, e si crea un alone emotivo in cui cose molto diverse tra loro appaiono come se fossero la stessa cosa». Gaza e l’industria israeliana della violenza attinge largamente alla nuova storiografia israeliana, decostruendo i miti fondanti e le più attuali operazioni di lavaggio dell’immagine di Israele presso l’opinione pubblica mondiale.
Antisionismo è antisemitismo?
La campagna di diffamazione verso i critici di Israele include due fasi. Nella prima si stabilisce l’equivalenza tra antisemitismo e antisionismo, che sarebbe nient’altro che una riformulazione in chiave moderna del vecchio odio anti ebraico. Nella seconda si sostiene la complicità della nuova categoria degli “antisemiti mascherati da antisionisti” con la persecuzione degli ebrei e persino con la negazione dell’Olocausto. L’operazione sarà riuscita nel momento in cui nell’immaginario collettivo le parole “antisionista”, o “filo-palestinese”, verranno automaticamente associate a “negazionista”, generando l’eliminazione da ogni dibattito pubblico e lo stesso tipo di condanna morale riservata ai responsabili o ai complici dello sterminio degli ebrei in Europa.
L’equiparazione tra antisionismo e antisemitismo è quindi un’operazione subdola, benché ormai sia un motivo ricorrente nei commenti del club degli amici di Israele. «Un passaggio storico», per citare l’utrasionista portavoce della comunità ebraica romana Riccardo Pacifici, è stata la Presidenza della Repubblica di Giorgio Napolitano, che ha raccolto l’invito di Sinistra per Israele inaugurando il mantra «No all’antisemitismo anche quando esso si travesta da antisionismo». Questo ha dato ai propagandisti nostrani la tranquillità per ribadire a ogni occasione che l’antisionismo altro non è che un «moderno strumento di antisemitismo», sempre per dirla con Pacifici. Criticare Israele significa quindi criticare gli ebrei. Antisionismo uguale antisemitismo. L’operazione di rovesciamento della realtà è compiuta.
Ecco quindi che l’analisi del colonialismo sionista e del carattere segregazionista dell’espansione territoriale israeliana (per dirla con l’ebreo palestinese Uri Davis) sarebbero per Furio Colombo il frutto «dell’odio inesauribile contro Israele e contro gli ebrei», mentre l’analisi del ruolo israeliano nell’industria globale della violenza tradisce «un evidente richiamo ai Protocolli dei Savi di Sion».
In un commento del 31 luglio 2013 su Il Fatto Quotidiano l’ex direttore de l’Unità mostra chiaramente l’intenzione di mettere sullo stesso piano antisionismo e antisemitismo. Prima lo fa dicendo che la lotta contro il sionismo ha accomunato «sia i neofascisti e sia i comunisti», poi afferma che l’ignoranza storica di molti ha fatto sì che l’antisionismo, «il pezzo forte della propaganda di Hitler», mettesse profonde radici non solo in Casa Pound e Forza Nuova, «ma anche in una parte della sinistra». Ogni distinzione tra antisemitismo e antisionismo è annullata. Colombo utilizza tranquillamente sionismo ed ebraismo, Israele e popolo ebraico, come sinonimi. La critica a Israele nasconderebbe perciò un sentimento razzista contro gli ebrei.
Antisionismo è negazionismo?
Il meccanismo è chiaro: lo stigma dell’antisemitismo porta con sé un’implicita accusa di indifferenza se non di complicità all’Olocausto e alle persecuzioni contro gli ebrei. La battaglia si sposta quindi dal versante politico a quello psicologico, facendo leva sul senso di colpa collettivo che si prova in Europa per l’Olocausto. È tipico della propaganda sionista appropriarsi in maniera selettiva di diversi eventi della storia del popolo ebraico allo scopo di creare un legame diretto tra il passato delle persecuzioni ebraiche e il presente della colonizzazione sionista (qui mi permetto di rimandare al mio: Dinamiche di esclusione e di inclusione nelle narrazioni israeliana e palestinese, facilmente reperibile in rete). L’evocazione dello sterminio degli ebrei in Europa serve sia per nascondere i crimini israeliani contro i palestinesi sia per giustificare retrospettivamente le aspirazioni coloniali del movimento sionista in Palestina.
«Ci disgusta l'abuso della nostra storia per giustificare il genocidio in corso a Gaza», denunciavano i 327 sopravvissuti all’Olocausto.
Il sillogismo della propaganda prevede: se antisionismo è antisemitismo, e antisemitismo è negazionismo, allora antisionismo è negazionismo: «L’antisemita, nella grandissima parte è per niente, o solo in parte, conscio dello spazio interiore in cui vive e che cresce o tende quasi a scomparire, a seconda degli eventi. Molti, col tempo, hanno trovato un grande alibi e se ne sono impossessati. È l’anti-sionismo, un secondo negazionismo. Si nega Israele invece di negare la Shoah», scrive Colombo su Il Fatto Quotidiano del 29 gennaio 2014. I nuovi sostenitori del negazionismo sarebbero quindi gli antisionisti, antisemiti mascherati, che celano l’odio degli ebrei dietro all’impegno contro Israele.
Colombo è stato il principale promotore della legge che istituisce la “Giornata della memoria”, dedicata alle vittime dell’Olocausto, che si trasforma non di rado in occasione per riaffermare ai più alti livelli la solidarietà verso Israele e la condanna, secondo il noto mantra, del nuovo antisemitismo anche quando si maschera sotto forma di antisionismo. Colombo è anche tra i promotori del disegno di legge sul reato di negazionismo. Preoccupa che siano dei sionisti ad occuparsi di temi altamente drammatici della storia ebraica e allo stesso tempo così apertamente strumentalizzati dalla propaganda filo-israeliana. Non è impensabile immaginare che il prossimo passo potrebbe essere perseguire come reati l’antisionismo o le iniziative di boicottaggio di Israele, in quanto considerate nuove manifestazioni di antisemitismo e quindi di negazionismo!
Antisionismo è antirazzismo
L’eliminazione di qualsiasi distinzione tra antisionismo ed antisemitismo, o il tentativo di attribuire all’antisionismo una mascherata intenzione antisemita, sono operazioni molto pericolose, in quanto spingono a credere che non ci sia alcuna differenza tra ebrei e sionisti, tra identità ebraica - fondata su categorie religiose e culturali - e sionismo - fondato sull’adesione ad un progetto coloniale. Richard Falk, ex Relatore dell'Onu per i diritti umani nei Territori occupati, sostiene che l’uso strumentale dell’antisemitismo per screditare i critici di Israele incoraggia l’antisemitismo vero e proprio, cioè quello fondato su un odio o un pregiudizio verso gli ebrei in quanto tali. Quest’ultimo atteggiamento induce infatti ad inquadrare gli ebrei all’interno di un’unica categoria etnico-politico-religiosa, anche se non condividono il progetto sionista e non hanno alcun rapporto con lo stato israeliano, e dunque responsabili come popolo dei crimini di Israele.
E come non riconoscere che molte delle attuali ondate di antisemitismo nascono sempre più in reazione ai crimini israeliani, percepiti nell’immaginario collettivo come crimini ebraici grazie alla confusione generata dai propagandisti sionisti e all’appropriazione strumentale della storia ebraica da parte dello stato d’Israele (il fatto stesso che si definisca «stato ebraico» contribuisce alla confusione tra ebraismo, sionismo e Israele!)?
Se l’antisemitismo è basato sull’assegnazione a tutti gli ebrei di caratteristiche uguali e immutabili, attribuire la responsabilità delle azioni israeliane a tutti gli ebrei del mondo è un atteggiamento intrinsecamente antisemita. Il sionismo adotta le stesse categorie dell’antisemitismo nel momento in cui si erge a rappresentante di tutti gli ebrei e a unico depositario della loro vicenda storica. Associare, come fa Colombo, la lotta contro il sionismo ai rigurgiti antisemiti delle frange neo-fasciste e rosso-bruniste, rischia di far sì che tornino di moda «deliranti visioni di "colpa collettiva": tutti gli israeliani colpevoli per le scelte del loro governo; tutti gli ebrei colpevoli per ogni errore di Israele», proprio quello che il Manifesto di Sinistra per Israele dice di voler scongiurare.
Confondere antisionismo e antisemitismo impedisce perciò di identificare e di combattere il vero antisemitismo laddove esso si presenti, oltre a cancellare la lunga storia di antisionismo portata avanti da un’esigua ma determinata minoranza di israeliani e da numerosi ebrei in tutto il mondo. Bisogna distinguere categoricamente l’antisemitismo dall’antisionismo. Il primo è una forma di razzismo. Il secondo, invece, è una posizione morale contro il razzismo.
Verrà un giorno in cui si potrà discutere serenamente del colonialismo sionista anche in Italia, senza dover essere etichettati come antisemiti o addirittura negazionisti. Il movimento di solidarietà, anzi, di co-resistenza con la lotta palestinese di liberazione ha i suoi robusti anticorpi contro ogni tentativo di strumentalizzazione in senso razzista o antisemita. Del resto il nostro antisionismo deriva dal più ampio impegno antirazzista. Per questo restiamo fermamente convinti che non ci sarà uguaglianza tra palestinesi ed ebrei israeliani nella Palestina storica senza lo smantellamento di Israele come stato coloniale di stampo razzista.
Enrico Bartolomei è un membro della Campagna di Solidarietà con la Palestina delle Marche ed è dottore di ricerca in Storia dell’area euro mediterranea all’Università di Macerata.