di Joseph Massad
"Per quanto molti attivisti siano sinceri nel loro sostegno alla causa, resta la preoccupazione della 'solidarietà turistica' per la quale gli occidentali sono stati particolarmente portati nel corso del XX secolo: sui principi che guidano il supporto alla lotta di liberazione ci dovrebbe essere chiarezza, e nessun compromesso possibile".
Sin dai primi anni Novanta, dopo il collasso dell’Unione Sovietica e la collaborazione dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) con Stati Uniti e Israele per liquidare la lotta anti-coloniale palestinese attraverso gli Accordi di Oslo, la solidarietà con il popolo palestinese a livello internazionale si è gradualmente ripiegata su se stessa.
In anni recenti, tuttavia, questa solidarietà è tornata a riemergere grazie al coinvolgimento sempre più vasto di attivisti nella Campagna palestinese per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni verso Israele (BDS).
Se il sostegno internazionale alla causa palestinese si era arrestato dopo il 1991, con la messa in pratica di molte delle previsioni contenute negli Accordi di Oslo, le cose sono cambiate negli ultimi 10 anni, quando in tanti hanno realizzato che Oslo era uno strumento per permettere alla colonizzazione israeliana di andare sempre più a fondo.
Questo è particolarmente vero per le società civili dell’Occidente e del Nord America, ma sta iniziando a farsi avanti anche a livello di politiche europee, con la sensazione sempre più diffusa che la politica dell’amministrazione Obama dovrebbe cambiare alla luce della recente vittoria elettorale di Benjamin Netanyahu, e la conseguente chiara dichiarazione che uno Stato palestinese durante il suo governo non vedrà mai la luce.
Tornare a queste oscillazioni storiche nel movimento globale di solidarietà internazionale con la Palestina è necessario per comprendere e analizzare le più recenti strategie di sostegno e le contro-strategie che Israele e i suoi alleati stanno mettendo in campo per indebolirle.
LE ILLUSIONI DEL "PROCESSO DI PACE"
La fase successiva al “processo di pace” degli anni Novanta, iniziata con la Conferenza di Madrid del 1991, ha portato con sé grandi trasformazioni nella solidarietà internazionale con i palestinesi. Mentre il mondo aveva sino a quel momento sostenuto il popolo palestinese e il suo diritto al ritorno, anche attraverso l’annuale riconferma della Risoluzione delle Nazioni Unite, gran parte del mondo oggi sembra sostenere al massimo una qualche forma di compensazione per chi è stato espulso.
Mentre gran parte del mondo in passato sosteneva lo smantellamento di Israele come Stato coloniale di stampo razzista - come evidenziato dalla Risoluzione Onu 3379 del 1975, che definiva il Sionismo una “forma di razzismo e di discriminazione razziale” - dopo il 1991 la maggior parte del mondo ha chiesto che quella stessa Risoluzione fosse modificata.
Mentre gran parte del mondo in passato era deciso ad isolare diplomaticamente Israele come uno dei tre Stati reietti (insieme al Sud Africa dell’apartheid e a Taiwan), oggi la maggior parte dei paesi del mondo ha stabilito relazioni diplomatiche con Tel Aviv.
L’unico diritto palestinese che la maggior parte del mondo sembra ancora sostenere è quello all’autodeterminazione della popolazione di Cisgiordania e Gaza per porre fine all’occupazione di parte di questi territori (ma non di Gerusalemme Est). Il diritto dei palestinesi a resistere all’Occupazione, che prima aveva un vasto sostegno internazionale, dopo Oslo è oggi sostenuto solo da pochi.
Questa perdita di sostegno non riguarda solo Stati e governi, ma include movimenti politici, attivisti, individui.
Durante gli anni ’60 e ’70 l’OLP esprimeva una chiara visione di ciò che significava la lotta di liberazione dal colonialismo sionista. Nel famoso discorso di Yasser Arafat alle Nazioni Unite del 1974 questo punto fu articolato chiaramente, così come in successive dichiarazioni dell’OLP.
L’analisi di cosa fosse il sionismo era chiara: un movimento colonialista razzista, discriminatorio, imperialista. Israele era considerato uno Stato coloniale e razzista, discriminatorio verso i suoi stessi cittadini palestinesi, che impediva a chi era stato espulso di fare ritorno, il cui obiettivo era quello di espandersi territorialmente attraverso l’occupazione coloniale di terre del paese vicino.
Anche la soluzione, per quanto avesse bisogno di maggiore accuratezza di definizione, era chiara: la costruzione di uno Stato laico e democratico su tutto il territorio del Mandato britannico palestinese (la Palestina storica pre-’48, ndt), nel quale arabi ed ebrei avrebbero goduto dei medesimi diritti.
Era in questo contesto che il sostegno internazionale e la solidarietà, sia a livello ufficiale che popolare, aveva dichiarato il sionismo come razzista, riaffermando senza sosta il diritto dei palestinesi della diaspora a fare ritorno alle loro case e terre, e affermando la legittimità del diritto alla resistenza del popolo palestinese all’Occupazione israeliana.
La lotta di liberazione palestinese ha attirato un vasto sostegno internazionale, arrivando fino all’arruolamento di volontari internazionali nelle fila dei fedayyin, i combattenti palestinesi in Giordania e in Libano negli anni ’60 e ’70. Anche se la maggior parte dei sostenitori proveniva dal “terzo blocco”, molti paesi europei mostravano altre forme di solidarietà: manifestando per i palestinesi, scrivendo in loro nome, opponendosi ai loro governi e al supporto dato a Israele.
(…)
La solidarietà con i palestinesi nel mondo arabo invece affonda le sue radici molto più lontano nel tempo, almeno al 1917. Lo stesso Izz al-Din al-Qassam, il primo fedayin palestinese, la cui uccisione da parte degli occupanti britannici diede il via alla grande rivolta palestinese del 1936-39, veniva dalla Siria.
Purtroppo è altrettanto vero che gli Stati arabi intervennero per porre fine all’espulsione di palestinesi da parte delle forze sioniste solo a metà maggio 1948, e che la costruzione dello Stato israeliano fu anche il risultato di forti pressioni esercitate nel mondo arabo, i cui regimi all’epoca erano interessati a conservare la propria egemonia regionale.
LE CONCESSIONI DELL’OLP
Da quando l’OLP ha iniziato ad indebolire la sua visione politica e la sua missione, avviando il percorso negoziale che con il sostegno degli Stati Uniti l’avrebbe condotto alla Conferenza di Madrid del 1991, i sostenitori della causa palestinese sono stati gettati in una condizione di assoluta incertezza.
La prima e maggiore concessione che l’OLP avrebbe dovuto fare nel contesto di Oslo era la ritrattazione del consenso internazionale intorno all’equiparazione sionismo/razzismo, a cui si sarebbe sostituito il consenso statunitense e israeliano: quello che considerava Israele come la sola democrazia del Medio Oriente, intrappolata in una disputa territoriale con i suoi vicini.
Come già detto, il primo risultato fu l’accordo su questo tipo di consenso rispetto alla Risoluzione Onu del ’75, modificata nel 1991. Gli stessi Stati che l’avevano sostenuta ne appoggiarono la modifica. Mentre la prima era stata sostenuta da 72 paesi, quella del 1991 fu supportata da 111.
Evidentemente il collasso dell’Unione Sovietica e del blocco orientale è stata la maggiore perdita per la causa palestinese presso l’Onu, ma la trasformazione nella visione del “terzo blocco”, dei suoi alleati e di movimenti e individui a livello internazionale è stata influenzata dalle concessioni dell’OLP più che da ogni altro fattore.
Il sionismo è rimasto lo stesso, così come la sua ideologia e le sue pratiche: a cambiare è stata l’OLP, che non ha più ritenuto necessario denunciarne il razzismo. E, come sostengono alcuni, non si poteva pretendere che i sostenitori dei palestinesi fossero più pro-palestinesi dell’OLP.
Dalla Conferenza di Madrid, e ancora di più dopo Oslo, Arafat e la leadership palestinese hanno iniziato a modificare il proprio approccio rispetto al diritto al ritorno: è stato in quel contesto che la maggior parte dei sostenitori della causa ha iniziato a indebolirsi.
Così è stato anche per la legittimità della resistenza palestinese all’Occupazione: alla fine degli anni ’80, e a condizione di un dialogo con gli Stati Uniti che non si sarebbe mai realizzato, Arafat la identificò come “terrorismo”, rinunciandovi.
Alla luce di Oslo, Arafat e la neonata Autorità Nazionale Palestinese (ANP, creata in base agli Accordi) posero fine alla prima Intifada, avviandosi diligentemente alla soppressione della seconda. Alleati e sostenitori, come conseguenza, iniziarono ad indebolire il loro sostegno alla resistenza. Inoltre, mentre Arafat negoziava ad Oslo, trasformando l’OLP da movimento di liberazione nazionale in strumento nelle mani dell’Occupazione israeliana (l’ANP, ndt), tutti quei paesi che boicottavano diplomaticamente Israele iniziarono a domandarsi perché andare avanti quando l’OLP e lo stesso Arafat avevano costruito relazioni diplomatiche con uno Stato coloniale e razzista.
L’isolamento diplomatico internazionale di Israele è finito grazie agli accordi siglati da Arafat. Le conseguenze non hanno pesato solo a livello ufficiale, ma anche tra i movimenti politici e gli attivisti, per i quali l’OLP e Arafat erano simboli della lotta contro colonialismo e razzismo.
Quelle stesse persone si unirono al coro internazionale di sostegno al processo di Oslo, visto come un modo per risolvere quello che all’improvviso veniva chiamato “il conflitto israelo-palestinese”.
LA RESA PALESTINESE
Quando guardiamo alla storia della solidarietà internazionale con i popoli oppressi troviamo molti esempi di compromesso delle leadership nazionali, che tuttavia non hanno modificato il sostegno internazionale ai popoli in lotta (…).
Eppure, il fatto che l’OLP e il suo leader cambiassero posizione sotto la guida della nuova ANP, rafforzando l’Occupazione e nascondendosi all’ombra della loro precedente storia anti-coloniale, ha portato molti dei sostenitori della causa a seguire questa trasformazione.
La continua indecisione israeliana a riconoscere Arafat come il leader più adatto per la resa palestinese era basata sul suo rifiuto a collaborare pienamente su tutte le richieste di Israele, non sulla sua lotta contro razzismo e colonialismo.
Paesi, gruppi e individui che costituivano il movimento di solidarietà globale con la Palestina non hanno fatto questo tipo di distinzione. Questa confusione e questo fallimento, è stato detto, è stato il risultato dell’assenza di un movimento coeso e di una leadership palestinese che potesse rappresentare un’alternativa ad Arafat e all’ANP. Ma sebbene questa sia una componente fondamentale dell’analisi, non è sufficiente ne’ pienamente convincente, poiché non tiene in considerazione che questo è stato il risultato delle politiche di Israele e di Arafat, e che lui ed i suoi successori restavano gli unici leader possibili per i palestinesi.
Israele nei cinque decenni precedenti aveva assassinato ogni possibile guida alternativa, e il monopolio del potere esercitato da Arafat ha impedito che una nuova e alternativa emergesse dall’interno.
Il riemergere della solidarietà
Nonostante la confusione creata, la solidarietà ha continuato a crescere in tutto il mondo. Se gli Stati che avevano sostenuto i palestinesi prima di Oslo hanno iniziato ad essere messi sotto pressione dagli Stati Uniti e da Israele, non tutti i movimenti politici, gli intellettuali e gli attivisti si potevano mettere a tacere facilmente.
Molte persone nel mondo hanno iniziato a venire in Cisgiordania e Gaza dopo il 2001 per aiutare i palestinesi a combattere l’Occupazione e proteggere le loro vite.
Un esempio è la creazione dell’International Solidarity Movement (ISM) nel 2001 che, nel vivo della seconda Intifada, avrebbe portato un vasto numero di cittadini europei, americani e australiani nei Territori Occupati, per impegnarsi nell’attivismo nonviolento a fianco dei palestinesi, e in modo particolare nei casi di evacuazioni forzate, demolizioni di case, confisca di terre e altre forme di ordinaria violenza.
Gli attivisti dell’ISM, inoltre, iniziavano a documentare l’oppressione quotidiana dei palestinesi nei Territori come a Gaza. Molti di loro sono stati presi di mira da Israele: i suoi attivisti sono stati feriti, molestati, uccisi, e accusati di collaborare con il “terrorismo”.
L’idea alla base del loro attivismo era che internazionali volontari bianchi, americani come europei, sarebbero stati meno in pericolo degli stessi palestinesi di fronte alla violenza israeliana: non avevano capito che il privilegio dei bianchi non conta quando si oppone al consenso europeo e americano. I casi più noti che lo dimostrano sono quelli di Rachel Corrie, Tom Hurndall e Tristan Anderson.
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Nel frattempo si sviluppavano altre forme efficaci di lotta, come la Palestinian Campaign for the Academic and Cultural Boycott of Israel (PACBI), creata in Cisgiordania nel 2004, o la creazione del Boycott National Committee (BNC) ed il conseguente appello al Boicottaggio lanciato dalla società civile palestinese nel luglio del 2005.
Parallelamente il continuo assedio israeliano su Gaza ha fatto nascere nuove forme di solidarietà con la popolazione, come le Flottilla e i convogli nati per rompere l’assedio, di cui si ricordano alcuni tragici episodi come il massacro in acque internazionali della Mavi Marmara nel maggio del 2010.
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IL RISCHIO DELLA “SOLIDARIETÀ TURISTICA”
Per quanto molti di questi attivisti siano sinceri e genuini nel loro sostegno alla causa, resta la preoccupazione della “solidarietà turistica” per la quale gli occidentali sono stati particolarmente portati nel corso del XX secolo (…).
Se è vero che testimoniando gli orrori dell’Occupazione i visitatori possono opporsi alle politiche israeliane con maggiore forza, resta il timore che questo sia il limite massimo che possono raggiungere con la loro solidarietà.
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Di recente abbiamo assistito ad un nuovo fenomeno da parte di molti gruppi solidali: porre tutta l’attenzione sulla questione della Legge e del Diritto internazionale.
La Legge è sempre stata però la più conservativa delle istituzioni: discutere il merito legale delle violazioni israeliane è stato – e continua ad essere – uno strumento molto importante per la causa palestinese.
Ma tutta questa enfasi rischia di ridurre un secolo di lotta anti-coloniale palestinese in una questione legale, lasciando intendere che Israele dovrebbe solo praticare le sue politiche in accordo con la legalità internazionale, senza violarla. Non cessarle del tutto.
Il Diritto internazionale - come detto importante strumento per i palestinesi – dovrebbe essere considerato una di molte questioni centrali per la resistenza palestinese, evitando il rischio di approcci liberali e riduzionisti. (…)
Chi sostiene la causa palestinese deve restare vigile e chiaro, consapevole delle contro-strategie messe in atto per limitare l’impatto dell’attivismo. Potente come è il nemico dei palestinesi, il destino della lotta di liberazione è sempre a rischio.
Ecco perché chi la sostiene non deve esitare nel sottolineare chiaramente quali sono i suoi principi: porre fine alla natura razziale dello Stato israeliano in nome dell’uguaglianza tra cittadini palestinesi ed ebrei di Israele; consentire il diritto al ritorno dei palestinesi della diaspora; porre fine all’Occupazione della Cisgiordania, inclusa Gerusalemme Est, e all’assedio di Gaza.
In questo 67° anniversario della creazione dello Stato coloniale israeliano sulle rovine della Palestina, dovrebbe essere affermato con chiarezza che giustizia e pace non saranno conseguenza di un accomodamento con alcuni aspetti della natura coloniale e razzista di Israele.
Piuttosto, sono la fine del sionismo come avventura coloniale, e l’inizio della rimozione di ogni forma di discriminazione, a rappresentare la pre-condizione per una pace giusta.
Su questo punto il movimento di solidarietà con la Palestina non dovrebbe essere disposto ad accettare alcun tipo di compromesso.
Joseph Massad è docente di storia e politica moderna dei paesi arabi alla Columbia University.
Fonte: Electronic Intifada
Traduzione di Cecilia Dalla Negra per Osservatorio Iraq