Piano del governo per privatizzare compagnie statali e incassare 3 miliardi di euro in tre anni. Dagli anni ’80 Tel Aviv ha abbracciato un sistema neoliberista che ha allargato il gap tra classi sociali e gruppi etnici.
[Il piano comprende la Mekorot, ndr]
di Chiara Cruciati
L’ennesima ondata di privatizzazioni sta per stravolgere il sistema economico israeliano, già ostaggio di politiche neoliberiste che negli anni hanno allargato i gap tra classi sociali e gruppi etnici. Domenica il gabinetto socioeconomico ministeriale ha approvato un piano per la privatizzazione totale o parziale di numerose compagnie statali. L’obiettivo, dicono a Tel Aviv, è aumentare l’efficienza, ridurre il debito e combattere la corruzione.
Secondo il ministro delle Finanze Lapid, la manovra permetterà allo Stato di incassare 15 miliardi di shekel (oltre tre miliardi di euro) in tre anni e non supererà la quota del 49%. Ovvero, allo Stato resterà il controllo di maggioranza delle aziende e compagnie considerate strategiche, come elettricità, acqua, gas naturale, aviazione e trasporti pubblici. Tra le imprese interessate, anche quelle militari: la Israel Military Industries sarà privatizzata entro il prossimo anno, la Rafael entro il 2017.
Per le compagnie di minore importanza pubblica la quota statale sarà ancora minore, come nel caso dei porti di Ashdod e Haifa e l’azienda che lavora nel Mar Morto, la Dead Sea Works. Plauso del premier Netanyahu che vede nella riforma il modo “per incrementare le entrate e per garantire maggiore trasparenza”. Gli fa eco Lapid: la campagna di privatizzazioni è “una misura addizionale per porre fine alla politicizzazione delle compagnie e alla corruzione”.
L’ondata di privatizzazioni si inserisce all’interno di un sistema economico che ha subito profonde trasformazioni dal 1948 ad oggi. Il socialismo israeliano osannato dall’Europa negli anni ’70 – e che ancora oggi è motivo di sostegno a Tel Aviv da numerosi partiti di sinistra europei – non esiste più: a partire dagli anni ’80 i vari governi che si sono succeduti hanno permesso la nascita di un sistema di libero mercato che ha trascinato Israele in cima alla classifica dei paesi industrializzati con il più alto tasso di povertà (21% contro una media globale dell’11%).
È il 1985 quando il governo di Tel Aviv varò un piano per combattere l’iper-inflazione dell’epoca attraverso l’adozione del sistema di libero mercato: liberatosi dalla responsabilità di tutela del lavoro, si pone una nuova priorità, attrarre investimenti esteri e interni. Gli strumenti sono gli stessi adottati in Europa: privatizzazione selvaggia e scomparsa quasi totale della regolamentazione statale.
L’effetto sul mondo del lavoro è devastante: crolla il numero di lavoratori iscritti al sindacato (dall’85% al 30% del totale), si fanno strada contratti a tempo, instabili, che generano ulteriore precarietà e si privatizza il sistema pensionistico.
“L’immagine di un Israele ‘socialista’, frutto delle politiche degli anni ‘60 e ‘70, si è eclissata – ci aveva spiegato Assaf Adiv, coordinatore nazionale del sindacato indipendente israeliano Wac Ma’an – In passato il sistema egualitario di welfare si era sviluppato a spese della popolazione palestinese, come elemento fondante del progetto sionista: un’economia fondata sull’uguaglianza sociale ed economica dei cittadini ebrei e sulle discriminazioni verso le comunità arabe. Oggi anche questo non c’è più: attraverso la liberalizzazione selvaggia, i vertici politici israeliani hanno dato vita a uno Stato basato sulle disuguaglianze anche tra i cittadini privilegiati, ovvero gli ebrei”. Nena News
Fonte: Nena News