Garnier si è scusata. A nome della sua filiale israeliana, la multinazionale dei prodotti per il benessere si è detta profondamente rammaricata per il pacco omaggio con shampoo, balsamo e make-up, inviato la scorsa settimana alle soldatesse dell’Idf. L’iniziativa annunciata dalla Garnier israeliana con uno status su Fb, diventato presto virale, aveva fatto infuriare mezzo mondo: ”La spedizione di un pacco con prodotti per la cura della persona è stato inviato alle nostre ragazze che stanno difendendo Israele. Abbiamo incluso anche anche saponi per il viso e minerali, così potranno rimanere belle anche quando sono sul fronte a difenderci” recitava il post originale, poi cancellato, su Facebook.
All’indignazione delle prime ore è seguita una chiamata al boicottaggio dei prodotti Garnier; argomento tanto forte da aver costretto la società francese ad un rapido retromarcia per evitare di rimanere incagliati nella potente (ed efficiente) rete del B.d.s. (Boycott, Divestment and Sanction) l’organizzazione che dal 2005 promuove campagne di boicottaggio nel mondo di prodotti israeliani per costringere lo stato ebraico ad adeguarsi alle risoluzioni delle organizzazioni internazionali sulla questione palestinese.
Unbelievable @GarnierUK thankx 4 ur contribution, now they can kill children while they look pretty! #BoycottGarnier pic.twitter.com/mjIm8yXxTU
— Asma Aljowhary (@MissAljowhary) August 6, 2014
Complice la rete, la campagna di boicottaggio ha dimostrato fino ad ora un’efficacia tale da aver messo in allerta le autorità israeliane: secondo il ministro delle finanze Yair Lapid il successo della campagna rischia di causare un danno incalcolabile all’economia del paese. Solo lo scorso anno, le società che producono nelle colonie israeliane hanno subito perdite per 14milioni di dollari mentre le esportazioni sono scese, secondo il Washington Post, del 14% in seguito ai molti contratti non rinnovati con aziende israeliane, soprattutto da catene commerciali europee.
Un attivismo fino a pochi anni fa deriso, quello del Bds è oggi diventato mainstream, costringendo le multinazionali a stare lontani da Israele per timore di perdere clienti e profitto; il paese della stella di David dal canto suo ha peggiorato la situazione approvando lo scorso anno una legge che rende reato le campagne interne di boicottaggio. Dalle merci all’arte, la situazione resta immutata: sono centinaia gli artisti e i musicisti che non si esibiscono in Israele (tra loro Coldplay, U2 e Bruce Springsteen) avvicinando sempre più l’immagine del paese a quella del sud Africa dell’apartheid.
La patria di Mandela era stata, negli anni del regime razzista e segregazionista di Pretoria, tagliata fuori dal circuito internazionale e questa appare sempre più la strada senza ritorno imboccata dalle iniziative unilaterali del governo Netanyahu. Ecco forse spiegata la durissima comunicazione utilizzata dal governo di Tel Aviv, nel corso dell’offensiva degli ultimi due mesi, contro le proteste internazionali; le pesanti e frequenti accuse di odio anti-ebraico rivolte senza troppi distinguo anche i movimenti pacifisti pro-Palestina che chiedono soltanto la fine dell’occupazione, sono diventati alla lunga un boomerang. Nonostante la posizione del governo consideri strumentalmente queste campagne come mosse da odio antisemita, il volume planetario della protesta è prova sufficiente che la realtà sia certamente altra.
Forse è proprio vero che in un mondo globalizzato, abbiamo più strumenti efficaci di democrazia diretta e persuasione di quanti pensiamo.
Fonte: Il Fatto Quotidiano