Panoramica
Come molti agricoltori di tutto il mondo, i contadini palestinesi sono vittime di un approccio dello sviluppo neoliberale dall’alto verso il basso che tenta di spodestarli dalla loro terra e di seminarla a servizio delle banche, delle corporazioni multinazionali e dei colossi del business agricolo. Uno strumento di questo approccio è stata la creazione da parte Autorità Palestinese di zone industriali che consolidano la dipendenza dei palestinesi ad Israele e sostengono l'attuale danno quadro economico.
In questa pubblicazione, l’autore ospite Vivien Sansour e il Direttore dei Programmi di Al-Shabaka Alaa Tartir danno voce ad un numero di contadini che stanno attualmente cercando di resistere a queste sfide. Si concentrano in particolar modo sui contadini di Jenin e Gerico, dove due vaste zone industriali stanno venendo costruite in questo periodo, e propongono soluzioni per aiutare i contadini a riguadagnare la propria sovranità e a restare sulle proprie terre. [1]
Le zone industriali palestinesi: la nuova minaccia
"Un giorno ci siamo svegliati con l'annuncio del governatore di Jenin che dovevamo rimuovere nostri raccolti dalla terra. Se non l’avessimo fatto di nostra volontà, l’avrebbero fatto loro al posto nostro. In quel momento, avevo il grano. Sono andato giù e l’ho raccolto, in modo che non fosse stato distrutto." [2]
Queste sono le parole di Mahmoud Abufarha, uno dei tanti contadini del villaggio di Al-Jalameh nel distretto di Jenin nella zona settentrionale della Cisgiordania occupata, che sta lottando per restare sulla sua terra. Oggi, i contadini palestinesi come Abufarha sono minacciati non solo dall’implacabile politica di confisca della terra israeliana, ma anche dalla confisca della terra per mano dell’Autorità Palestinese stessa per la costruzione di zone industriali che [l’ANP, ndt] afferma aiuterebbero i contadini e creerebbero posti di lavoro. Tuttavia, molti contadini temono che, mentre [l’ANP, ndt] dice di volerli aiutare, queste zone siano finalizzate solamente al trasformarli in manovalanza, piuttosto che in agricoltori produttivi, e a portarli via dalla loro più preziosa fonte di forza, la terra.
Gli sforzi per ridurre il potere degli agricoltori palestinesi, tuttavia, non sono nuovi. In realtà, diversi tentativi e politiche aggressivi per eliminare praticamente gli agricoltori palestinesi sono in corso sin dall'inizio della creazione dello stato di Israele nel 1948, quando uno sforzo deciso per "modernizzare" i contadini iniziò attraverso l'introduzione di nuove sementi e metodi che diminuirono la loro indipendenza e davano priorità alla quantità piuttosto che alla qualità al fine di soddisfare il nuovo progetto sionista. Mentre Israele si è presentato in tutto il mondo come il paese che "ha fatto fiorire il deserto", i contadini palestinesi sono stati usati e manipolati per sperimentazioni che gli sono costati molte delle loro sementi autoctone, così come grandi porzioni delle loro terre produttive. Dopo l'occupazione israeliana dei territori palestinesi nel 1967, molti di questi metodi sono stati applicati per tutta la Cisgiordania. Dalla sua creazione nel 1993, la PA ha favorito questo processo, piuttosto che invertirlo, lasciando oggi i contadini palestinesi in una situazione disastrosa.
Nella tendenza globale di industrializzazione dei terreni agricoli, gli agricoltori palestinesi non sono gli unici: agricoltori di tutto il mondo sono stati attaccati dai tentativi di indebolire la loro autonomia sulla produzione alimentare e aumentare la loro dipendenza da banche, corporazioni multinazionali e colossi del business agricolo. Che si tratti di Haiti, Honduras, India, o Palestina, l'agricoltura familiare su piccola scala rappresenta l'ultima frontiera della resistenza ad un sistema politico capitalista mondiale che diluisce l'identità delle persone e li spoglia della loro sovranità alimentare, al fine di garantire alle élite politiche ed economico il predominio sulle risorse umane e naturali.
Per Abufarha, come per molti agricoltori, l'agricoltura non è solo una fonte di reddito; è un esempio vivente di relazione intima con la terra, ed è profondamente intrecciata con l’identità, le credenze e i valori. Nel caso della Palestina, [l’agricoltura, ndt] conduce anche le lotte contadine per l'autodeterminazione contro la colonizzazione israeliana della loro terra. Questo settore, a lungo trascurato e spesso sabotato dai leader palestinesi, dalle istituzioni internazionali e da Israele, deve affrontare una nuova minaccia: la creazione di zone industriali palestinesi sponsorizzate a livello internazionale o regionale. Queste zone stanno contribuendo a privare l'economia palestinese del suo potenziale trasformativo; ad espandere il predominio territoriale di Israele nei Territori Palestinesi Occupati (OPT); ad aumentare la dipendenza dei palestinesi da Israele sia in termini di commercio dei prodotti che di mercato del lavoro e a rimuovere l’agricoltura familiare su piccola scala, che è stata la fonte di sostentamento del popolo e della cultura palestinese per generazioni. Ma l’ANP, il settore private dipendente da essa e i loro sponsor internazionali non sono d'accordo: vedono le zone industriali come pilastro dello sforzo di costruzione di uno Stato indipendente e che sostiene l'economia palestinese e il raggiungimento uno sviluppo sostenibile.
Coltivare sotto l’Occupazione e lo sconfinante Neoliberismo
I contadini palestinesi lottano anche contro altri vincoli. Dal 1967, per esempio, Israele ha inondato il settore agricolo palestinese con pesticidi chimici, erbicidi e fertilizzanti. Allo stesso modo, ha sostenuto la necessità di un sistema di mono coltivazione che ha lasciato gli agricoltori vulnerabili agli intermediari che dettano prezzi e varietà delle colture. Ha anche spinto il settore agricolo verso la coltivazione di prodotti che richiedono un’alta dedizione della manodopera, come fragole, cetrioli e pomodori, che sono prodotti e trattati chimicamente in maniera pesante in serre usando manovalanza a basso costo. [3]
Nel frattempo, il Ministero dell'Agricoltura palestinese non è mai stato in grado di proteggere gli agricoltori dall’ondata di prodotti agro-alimentari provenienti dagli insediamenti ebraici e dalla saturazione dei mercati locali palestinesi. Un divieto ufficiale per i prodotti delle colonie è stato introdotto solo nel 2010, ma spesso non viene applicato, e i prodotti continuano a provenire dalle aziende agro-alimentari israeliane, perfino quando sono disponibili i prodotti locali di stagioni. Recentemente, a Giugno 2014, il Ministero dell’Agricoltura dell’ANP, che originariamente incoraggiava gli agricoltori a piantare angurie con la promessa di promuovere e proteggere il loro raccolto, è stato costretto a consentire ad un’ondata di angurie a basso costo prodotte da Israele, di entrare nel mercato palestinese, sotto la protezione dell'esercito israeliano. Questo avviene ora su base quotidiana come conseguenza dell’asimmetria del potere tra palestinesi e israeliani, e sta causando un’importante perdita economica a decine di produttori palestinesi.
Come molti hanno notato, i fondi destinati al settore agricolo non hanno superato l'1% del bilancio totale annuale dell’ANP. Allo stesso tempo, il settore agricolo rappresentava solo il 1,4% del totale degli aiuti internazionali tra il 1994 e il 2000, e ad oggi questo numero è sceso allo 0,7%. Entro il 2012, l'agricoltura è arrivata a costituire solo il 5,9% del PIL della Palestina, dal 13,3% del 1994. Tutto questo nonostante i report World Food Program secondo i quali il 50% delle famiglie palestinesi attualmente soffre di insicurezza alimentare.
L'ultima tornata dei colloqui "di pace" intermediati dagli Stati Uniti tra l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) / PA e Israele indicano che sono in agguato ulteriori orrori per gli agricoltori palestinesi. Nel maggio 2013, il Segretario di Stato americano John Kerry ha promosso la cosiddetta Iniziativa Economica per la Palestina (PEI), al World Economic Forum in Giordania, promettendo "un nuovo modello di sviluppo" che avrebbe raccolto 4 miliardi di dollari di investimenti internazionali e, di conseguenza, aumentato il PIL della Palestina di ben il 50% in tre anni, ridotto la disoccupazione e aumentato i salari. (Alcuni mesi dopo la cifra di 4 miliardi di $ è stato adeguata verso l'alto a 11 miliardi di $.)
Le perdite iniziali del PEI hanno scatenato un'ondata di critiche da parte del tradizionale approccio di sviluppo neoliberista dall’alto verso il basso, che viene venerato dalle istituzioni finanziarie internazionali. Questo non è in realtà tanto diverso dal fallimentare modello economico che coloro che avevano interessi internazionali hanno imposto ai palestinesi sin dall'inizio del processo di Oslo, che propone soluzioni economiche per problemi politici.
Sotto il programma PEI, l'agricoltura è uno degli otto "settori chiave" individuati per lo sviluppo, soprattutto attraverso le nuove "zone economiche speciali" (SEZ) palestinesi, ossia le zone industriali, con l'affermazione che queste zone serviranno a rilanciare l'economia e in particolare il settore agricolo attraverso investimenti agro-alimentari e profitti più elevati. Già due parchi industriali sono in costruzione a Jenin e Gerico. Hanno ricevuto finanziamenti internazionali e sono supervisionati da un organismo affiliato all’ANP, il Palestinian Industrial Estates and Free Zone Authority (PIEFZA). [4]
Tuttavia, nonostante le affermazioni che queste zone industriali costituiscano un progetto nazionale palestinese, alcuni report hanno messo in guardia dal fatto che porteranno vantaggi alle aziende israeliane, in particolare alle società con sede nelle colonie ebraiche in Cisgiordania - illegali secondo il diritto internazionale - mentre distrugge le famiglie contadine e la più fertili distese di terra Territori Palestinesi Occupati. I critici hanno descritto tali zone anche come "carceri economiche", rendendo i palestinesi ancor più asserviti ad Israele, dato che l’ANP deve fare affidamento sulla buona volontà degli occupanti per l'accesso, il movimento, e il trasferimento delle entrate fiscali.
Inoltre, concentrando l'attività agricola in queste aree si mina proprietà palestinese della terra, rimuovendo i palestinesi dai loro stessi terreni e portandoli a lavorare in zone specifiche, in genere vicino ai centri urbani, oltre a recidere il rapporto tra il consumatore e l'agricoltore locale. Tutto questo avvierà inevitabilmente il trasferimento della popolazione e l'urbanizzazione forzata sul lungo termine delle comunità rurali, che avranno conseguenze assai dannose per la sovranità palestinese e la sostenibilità, per non parlare dell’atteso danno ambientale che avverrà dalla produzione di rifiuti industriali in area sia agricole che abitate.
In difesa alla sua collaborazione con Israele, l'Autorità Palestinese ha fatto un serio sforzo per promuovere le zone industriali come progetti di sviluppo benigni. A Luglio 2013, l'allora Primo Ministro ad interim palestinese, Rami Hamdallah, posò davanti alle telecamere sui terreni della zone industriale di Jenin e dichiarò che la zona avrebbe creato più di 15.000 posti di lavoro. Nello stesso mese, il Ministro della Pianificazione palestinese incontrò i ministri giapponesi, giordani e ed israeliani per discutere lo sviluppo del Parco Agricolo Industriale di Gerico (JAIP) - una zona descritta come un progetto fiore all'occhiello del "Corridor for Peace and Prosperity Initiative" giapponese, proposta con l'obiettivo della cooperazione regionale. [5]
Chi ne trae profitto? Non i contadini di Jenin
Gli agricoltori palestinesi, tuttavia, dubitano che potranno beneficiare di queste zone industriali. Naturalmente, le maggiori tensioni sono con i piccoli agricoltori che non sono stati consultati e che vedono queste zone come una minaccia esistenziale. In realtà, molte piccole aziende sono già state abbandonate perché non potevano competere con i prodotti agro-alimentari provenienti da Israele e dai suoi insediamenti illegali. Le zone industriali potranno solo aggravare il problema.
La Zona Industriale di Jenin, nota anche come Al-Jalameh, ha avuto le sue battute d’inizio nel processo di Oslo, e la sua pianificazione è iniziata alla fine degli anni ‘90 con il sostegno della Banca Tedesca dello Sviluppo. Nel 2000, l’ANP espropriato un totale di 933 dunum (230,5 ettari) per "uso pubblico" e li ha trasferiti alla PIEFZA. Ma, dopo la seconda Intifada palestinese, iniziata nel 2000, il progetto è stato congelato. Solo nel 2007 la PIEFZA ha ricominciato a vivere, dando in concessione ad un partner turco, la TOBB-BIS Industrial Parks Development and Management Company, la gestione del parco per 49 anni. Il fatto più allarmante sulla Zona Industriale di Jenin è che esso è costruito su un terreno che fa parte di Marj Ben Amer, la pianura più fertile della Palestina, che fa parte della Mezzaluna Fertile - il granaio storico della Palestina.
Secondo gli agricoltori locali, il terreno su cui è ora in fase di costruzione la zona industriale è stata chiamata per generazioni El-Roba'yat. I residenti dei vicini villaggi di Al-Jalameh e Burqin coltivano questa parte di Marj Ben Amer e traggono il loro sostentamento da lì. Il terreno è multi variopinto, indicando le varie tonalità delle varietà vegetali, come gli spinaci verdi, il sesamo che germoglia e gli steli di grano dorato. Molte persone nei villaggi e nelle città circostanti ottengono i loro approvvigionamenti di legumi e di alimenti per il bestiame da questo sito dove saranno costruite le fabbriche del parco industriale e la centrale ampliata.
Per costruire questa zona industriale, l’ANP ha estromesso i coltivatori di El-Roba'yat attraverso rivendicazioni di “esproprio per utilità pubblica”. Questa legge consente al governo di acquistare terreni a bassi prezzi obbligatori per il "bene pubblico". Alcuni agricoltori, tuttavia, si stanno rifiutano di abbandonare la loro fonte di sostentamento per la creazione di una zona industriale che distruggerà il loro modo di vita e le loro risorse naturali ed economiche. Circa 20 agricoltori recentemente hanno intentato una causa contro l’ANP per contestare l'affermazione che il terreno sarà utilizzato per il bene pubblico.
Mahmoud Abufarha è uno degli agricoltori che hanno aderito alla battaglia legale per cercare di salvare la sua terra. Mentre guida attraverso la valle nella sua vecchia Subaru, ha raccontato come la sua famiglia acquistò la terra: "Abbiamo ridotto il nostro pane quotidiano, così abbiamo potuto risparmiare abbastanza soldi per comprare questa proprietà. Ho 59 anni, e ho coltivato questa terra per 50 anni. E' la mia vita." Quasi in lacrime, Abufarha fissava il cantiere in cui recinzioni metalliche e strutture in calcestruzzo sono state erette dove si trovavano i suoi campi di grano ed orzo.
Come molti abitanti del villaggio, Abufarha ritiene che le decisioni politiche ed economiche sono state prese non mostrano alcun rispetto per il suo patrimonio e il suo sostentamento. "Le autorità dicono che questo progetto si propone di servire per il bene pubblico. Io coltivo cibo. Non è forse questo più vantaggioso per il bene comune che una zona industriale che serve solo grandi fabbriche? Sembra come le nostre vite non siano altro che una grande torta e l’ANP, Israele, e i tutti gli investitori ne vogliano un pezzo, senza considerazione di ciò che ci accadrà. Si tratta solo di profitti, non di bene pubblico. "
Abufarha ha sottolineato che c’erano altri modi di stimare il valore del terreno. "Mille e duecento dunum [296,5 ettari] sfamano oltre 20.000 persone all'anno, ma ora ci dovremmo aspettare che la nostra pagnotta di pane provenga da altri paesi. La terra è vita. Senza le nostre terre non abbiamo la vita."
Nonostante i concentrati sforzi per salvare la valle Marj Ben Amer dalla sua pendente distruzione, il giudice ha respinto l’istanza che gli agricoltori hanno presentato contro la PA. Nel mese di Aprile 2014, ai contadini erano stati presentati dei documenti che li costringevano ad accettare un risarcimento per le loro terre, che avevano in precedenza rifiutato di vendere. Organismi affiliati all’ ANP hanno valutato le terre, ed i prezzi sono stati fissati senza negoziati con i proprietari terrieri. Secondo Abufarha, "mi hanno detto che non ha più importanza se voglio vendere o no, è diventato irrilevante, e che la terra è ora di proprietà della zona industriale. Sono stato anche informato che il denaro sarebbe stato depositato sul mio conto corrente come compensazione, indipendentemente dal fatto che io lo voglia o no."
Il capo del consiglio del villaggio di Al-Jalameh, Khaled Mir'eh, ha spiegato che ora che gli agricoltori non erano riusciti a impedire che la zona industriale venga costruita, il consiglio del villaggio stava cercando di trovare modi per ridurre al minimo l’impatto dei danni, per quanto possibile. Il timore che rifiuti tossici vengano scaricati in ciò che resta delle loro terre è una delle loro prime preoccupazioni. "E 'incomprensibile come una zona industriale venga costruita su terreni coltivabili di una zona popolata. L'intero progetto è stato imposto alla nostra comunità, e ora abbiamo a che fare con le prevedibili conseguenze, più in particolare quelle ambientali e di salute pubblica."
Indicando una collina rocciosa all'orizzonte, Mir'eh continuato, "Noi non siamo contro lo sviluppo. Ma se avessimo voluto costruire una zona industriale, avremmo scelto questa collina, sterile e lontana dalle case della gente. "Quando gli è stato chiesto quali alternative avrebbe suggerito se fosse stato consultato, ha detto, "Penso che la maggior parte della gente del villaggio avrebbero accolto con favore un progetto che investiva in ciò che già abbiamo. Un progetto che avrebbe portato i prodotti dei contadini delle aziende di piccole dimensioni ad essere commercializzati sul mercato, o a migliorare le cose che già facciamo, prestando attenzione al benessere delle persone e al futuro del nostro villaggio."
Ha affermato, senza mezzi termini: "Abbiamo molte alternative in Palestina, che già esistono. Se fossero interessati a creare posti di lavoro, allora avrebbero investito nel rafforzare i tanti agricoltori e le produzioni cooperative, che avrebbero preservato la terra e l'ambiente e avrebbero garantito la creazione di posti di lavoro locali per le persone locali, che servono non solo al nostro villaggio ma a tutta la Palestina.
Da Jenin a Gerico
Mentre la Zona Industriale di Jenin è ancora nelle sue fasi iniziali, l'infrastruttura del Jericho Agricultural Industrial Park (JAIP) è quasi completa. Mucchi di metallo prodotti da una delle fabbriche già operanti si depositano accanto ai pannelli solari finanziati dall'Agenzia Giapponese per la Cooperazione Internazionale (JICA), per la fornitura di energia verde al parco. Subhi Hallaq, un ingegnere che rappresenta il Jerusalem District Electricity Company ha tuttavia notato come questi pannelli non genereranno sufficiente elettricità, il che significa che l'energia elettrica aggiuntiva dovrà essere acquistato da Israele e Giordania. Nel frattempo, gli abitanti di Gerico continuano a soffrire di regolari carenze di elettricità.
JICA è stata criticata per la realizzazione di studi di fattibilità inadeguati e per aver gestito il JAIP senza meccanismi di responsabilità e misure di trasparenza. La critica più forte, però, è che il successo di JAIP dipende non solo la collaborazione tra colonizzatori e colonizzati, ma che il parco stesso si trova situato nella fertile Valle del Giordano, di cui Israele ne vuole avere il controllo in un qualsiasi ipotetico futuro Stato palestinese. Dato il vivo interesse di Israele in questo settore, molti dei terreni agricoli adiacenti sono sotto controllo degli insediamenti ebraici, previsti essere tra i principali beneficiari del parco industriale, piuttosto che i contadini palestinesi.
Seduto sul confine di quello che un tempo era una produttiva fattoria agricola, Abu Muhanad al-Fatyani, agronomo e proprietario del vivaio, ha spiegato come le regole e le condizioni della JAIP abbiano reso impossibile per gli agricoltori partecipare: "Alcune persone affiliate con l'Autorità palestinese ci ha detto che potevano offrirci delle locazioni annuali da affittare per l'uso della nostra proprietà all'interno della zona industriale. Ma il contratto di locazione che ci stanno offrendo è di 30 $ al metro, che si traduce in 30 mila dollari all'anno per ogni dunum", ha detto Al-Fatyani, "Non c'è un singolo agricoltore che può permetterselo. Anche se gli agricoltori mettessero in comune i loro soldi insieme per aprire una fabbrica, non sarebbe fattibile. Solo i grandi investitori possono permettersi tali cifre. "
Chi saranno questi investitori saranno rimane una domanda aperta, così come le tipologie di fabbriche che sarà situate nella zona. Questa ambiguità aggrava le preoccupazioni dei piccoli agricoltori di Gerico come Abed Alqader. Ha spiegato che i contadini sono preoccupati perché "hanno buone ragioni per credere che queste zone industriali non siano state progettate per produrre qualcosa. Piuttosto, serviranno da servizio di imballaggio per i prodotti agro-alimentari dagli insediamenti. Se queste zone sono state create per sostenere noi, i contadini palestinesi, perché non siamo stati inclusi in una qualsiasi delle consultazioni?" ha chiesto Abed Alqader. "Le nostre aziende agricole sono aziende a conduzione familiare. Non possono sostenere tali massicce operazioni industriali, e non siamo stati contattati per aumentare la produzione o l'acquisizione di nuove competenze, perciò come si può dire che questa è una zona agro-industriale destinata ad aiutare i contadini palestinesi?"
A un chilometro di distanza dal JAIP si trovano i campi di datteri di Nasser Ismail. Come un coltivatore biologico, Ismail è fiero di utilizzare acqua pulita per irrigare i suoi datteri. Mentre accumula concime organico in un mucchio che i suoi figli per distribuiranno in modo uniforme per ogni albero, Ismail ha detto: “Siamo messo alla prova da un’ondata di datteri delle colonie che vengono coltivati utilizzando acque reflue non trattate, e così sono molto più economici." Quando gli è stato detto che la zona industriale nelle vicinanze si aprirà impianti per la produzione di datteri e l’imballaggio di altri prodotti, è rimasto shockato, e ha detto: "Se questo è vero, significa che per noi è la fine. Questi impianti di imballaggio sono destinata per la produzione di massa dei campi degli imprenditori agricoli. Io sono un piccolo agricoltore. Questo mi sta per spingere fuori dal mercato."
Ismail sa cosa vuol dire lottare per rimanere a galla forse più di chiunque altro. La firma degli Accordi di Oslo e del Protocollo Economico di Parigi hanno introdotto norme che proibivano ai palestinesi di vendere i loro prodotti in Israele. Come risultato, Nasser ha perso 84.000 ILS (quasi 25 mila dollari). Fu allora che ha dovuto smettere di coltivare fichi ed uva e iniziare a coltivare datteri. Di fronte a una nuova sfida e ad una maggiore incertezza da affrontare a causa della vicina zona industriale, Ismail ha detto che potrebbe non avere la forza di andare avanti nel caso in cui perda la sua fattoria. Al contrario, il fratello Abu Issa ha detto che è determinato a coltivare nonostante tutti gli ostacoli: "L'amore per la terra e l'agricoltura è come un insetto che vive nel tuo sangue: è eterno. Anche se ho pianto a malapena un vaso di prezzemolo, devo continuare a coltivare. E anche se ci perdo, non lascerò mai la terra."
Un appello alla società civile.
Dal 2011, Israele ha concesso permessi ad alcuni agricoltori della Cisgiordania e di Gaza per presenziare alla sua più grande conferenza agricola annuale, che riunisce coltivatori, acquirenti, distributori, esportatori, catene di marketing e altri per creare reti di commercio e fare affari. Le stesse persone che una volta erano considerate "minacce alla sicurezza" per lo Stato di Israele sono ora ospiti d'onore ad un mondano evento a Tel Aviv. Gli inviti avanzati a questi agricoltori, le cui visite sono finanziate da USAID, sembrano essere un altro tentativo di cooptazione che scaturisce dall’iniziativa economica del Segretario Kerry, vale a dire per convincere i piccoli contadini palestinesi ad agire all’interno degli schemi agro-affaristici. Se fosse vero, questo creerà probabilmente solamente più indebitamento ed ulteriore scollegamento dei contadini palestinesi dalla loro terra.
I contadini palestinesi hanno bisogno di forti sostenitori in difesa dei loro diritti contro le politiche di Israele e dello "Stato" di Palestina. Come attori locali con l'accesso più diretto alle organizzazioni ed donatori internazionali, che l'impatto della politica dello sviluppo in Palestina, organizzazioni non governative e la società civile palestinese (CSO E NGO) hanno un responsabilità speciale nell’agire in difesa dei contadini palestinesi, unendosi al lavoro che organizzazioni come la Union of Agricultural Work Committees (UAWC), il Bisan Center for Research & Development, e la Sharaka Community Supported Agriculture stanno già facendo. Più nello specifico, CSO ed NGO devono contribuire a:
- Assicurare sostegno e risorse, in modo che i contadini possano sostenere la loro lotta per lottare e resistere alle zone industriali.
- Aprire canali in cui i contadini possano confrontarsi direttamente con l’ANP, compreso il sistema giudiziario dell’ANP che nega i diritti di questi agricoltori.
- Sviluppare progetti in coordinamento con i leader delle comunità per sostenere gli agricoltori con infrastrutture alternative per una maggiore produzione, la commercializzazione locale e catene di valori locali.
- Organizzare campagne di comunicazione pubblica per esporre i miti del progetto di costruzione di uno Stato, che porta vantaggi all’agenda globale neoliberale a spese dei contadini palestinesi.
Il popolo palestinese non può aspettare che sia la politica a cambiare: sono necessari sforzi organizzati e sostenuti da più parti della comunità per reinvestire nell’agricoltura locale. Uno degli obiettivi principali dovrebbe essere rimettere in collegamento consumatori direttamente con gli agricoltori. Ciò include il finanziamento da parte della comunità delle imprese agricole e dei progetti - che le strutture cooperative potrebbero facilitare – per l’avvio di business non-profit o profit che possono costruire strumenti che rendono l'agricoltura sostenibile più conveniente e fattibile per agricoltori, fornitori e consumatori. Gli agricoltori sono l'ultima frontiera dei palestinesi per la libertà e un pilastro importante per la creazione di un modello di sviluppo alternativo basato su un'economia di resistenza e fermezza. Agricoltura e sovranità alimentare sono due fonti di potere che rendono possibile per le persone a rivendicare i propri diritti e conservare il loro anti e variegato patrimonio. Lasciati senza mezzi a sostenere se stessi, i palestinesi perderebbero uno dei più importanti elementi di resistenza che possiedono.
Note
[1] Gli autori vogliono ringraziare i contadini, Thaer Washaha (Bisan Center for Research & Development), e Rena Zuabi per il valido contributo dato a questa pubblicazione
[2] Fino a comunicazione contraria, le citazioni provengono dalle interviste effettuate dagli autori.
[3] Per maggiori informazioni, vedere George Kurzom, Towards Alternative Self-Reliant Agricultural Development (Birzeit: Birzeit University Development Studies Programme, 2001), il MA'AN Development Center e l’Union of Agricultural Work Committees (UAWC).
[4] Per una più approfondita analisi, vedere “Neoliberal Palestine” in The Battle for Justice in Palestine (Chicago, Illinois: Haymarket Books, 2014), pag. 75-124, di Ali Abunimah, 75-124, e la pubblicazione del Bisan Centre for Research and Development.
[5] Il Ministro degli Affari Esteri giapponese ha affermato: “quando il concetto di Corridoio per la Pace e la Prosperità si sarà materializzato, i problemi regionali saranno risolti attraverso soluzioni economiche, piuttosto che di sicurezza o politiche.”
Fonte: al-shabaka.org
Traduzione: BDS Italia