di Susan Abulhawa

Scientific American ha recentemente condotto una ricerca sull'industria israeliana della desalinizzazione, osannandola come un prodotto miracoloso dell’ ingegno di una piccola nazione in mezzo a nazioni roventi e arretrate.

Per citare il linguaggio romanzato dell'articolo, l'autore si riferisce a Israele come "una civiltà galvanizzata che ha creato l'acqua dal nulla", dove solo a poche miglia di distanza, alludendo alla Siria e l'Iraq in particolare, ma anche ai paesi arabi in generale, "l'acqua è scomparsa e le civiltà si sono sgretolate".

E' sorprendente vedere sulle pagine di Scientific American una tale palese promozione dell'eccellenza di Israele e la resurrezione menzognera della mitologia del "fare fiorire il deserto". E 'importante integrare questa favola dell'acqua con i fatti, la storia e la realtà.

L'autore sostiene sfacciatamente che i 900 anni di storia palestinese siano israeliani. In realtà, Israele è un paese di 68 anni fondato da immigrati ebrei europei che occuparono la Palestina, espulsero la maggior parte della popolazione indigena e rivendicarono tutti i loro terreni, fattorie, case, aziende, biblioteche e risorse.

Oltre tale appropriazione gratuita di storia palestinese, l'articolo non fornisce alcun contesto storico riguardo il clima, le precipitazioni e le risorse idriche naturali, dando l'impressione di una terra arida e naturalmente inospitale.

Nei fatti, nel corso della storia, il nord della Palestina ha vantato un clima mediterraneo, con estati calde e secche e con precipitazioni abbondanti in inverno. E infatti, le precipitazioni di Ramallah sono superiori a quelle di Londra, così come le piogge di Gerusalemme.

La metà meridionale della Palestina diventa deserto intorno alla regione di Beersheba, dove il Deserto del Naqab si espande fino alla punta della Palestina. Quando Israele è stato istituito, i Palestinesi si trovavano già in una condizione di sostenibilità coltivando il 30 per cento del loro paese. Escludendo il distretto di Beersheba, tale cifra sale a una media del 43 per cento, raggiungendo il 71 per cento a Gaza.

La gestione dell'acqua al servizio del colonialismo

Il regime idrico di Israele funziona in modo sinergico all'interno di un contesto più ampio di esclusività ebraica e negazione palestinese. Separare questi due (aspetti, n.d.t.) in una discussione è frutto di malafede, dal momento che gran parte della crisi idrica corrente è direttamente e indirettamente imputabile al rovesciamento sionista di tale organizzazione sostenibile, da parte della comunità originaria, del territorio e dell'agricoltura.

Nel suo primo anno di fondazione, cominciò in modo deciso la deviazione da parte di Israele dell'acqua da fiumi e affluenti, forzando la natura verso variazioni innaturali in adempimento ad una ideologia che era in conflitto con il territorio locale.

L’aver ignorato l'incompatibilità ecologica (costituita, n.d.t.) dal piantare colture aliene ad alta intensità idrica al fine di alimentare i palati europei e l’aver irrigato il deserto per travasamento dell'acqua (proveniente, n.d.t.) dai vicini, dagli abitanti e dalla biodiversità locale, il sovra-pompaggio e la sottrazione di acqua per servire gli insediamenti sionisti con gli insostenibili standard europei, ha creato le basi per un gran numero di disastri ambientali in tutta la Palestina.

Ad esempio, anche se Israele ha propagandato la percezione di ingegnose pratiche agricole ebree (attraverso narrazioni per le pubbliche relazioni di eccezionalità ebraica simile a quello utilizzato nell'articolo di Scientific American), l'agricoltura di Israele per l'estero è stata in realtà distruttiva per l'equilibrio ecologico della Palestina. Con l'80 per cento di acqua disponibile confluita nell'agricoltura, che ha contribuito per meno del 3 per cento all' economia israeliana, Israele ha continuato a sottrarre risorse idriche per promuovere il sistema coloniale sionista, un’incongruenza ecologica per l'ambiente locale.

Privare i palestinesi della loro acqua

Simultanea rispetto alla colonizzazione è stata la negazione e l'esclusione della società palestinese originaria. Insieme con il furto all'ingrosso di ricchezze e beni palestinesi, Israele ha intrapreso la distruzione della vita palestinese, con al centro l'agricoltura palestinese, che dipendeva da colture non irrigue come alberi di ulivo.

Sempre a questo fine, il controllo totale di Israele su tutta l'acqua della Palestina gli ha permesso di mantenere i Palestinesi assetati e in ginocchio. La distribuzione iniqua e razzista di acqua è stata ampiamente documentata nei severi rapporti da parte di organizzazioni locali e internazionali.

L'articolo afferma che Israele rifornisce di acqua i Palestinesi, ignorando il fatto cruciale che l'acqua appartiene in primo luogo ai Palestinesi. L'acqua dolce viene pompata da una falda acquifera di montagna sotto villaggi e territori palestinesi per la fornitura di insediamenti israeliani. Una piccola frazione di questa acqua viene poi rivenduta ai Palestinesi, in genere a prezzi molto più alti rispetto a quello per le colonie ebraiche nella stessa zona.

Mentre i coloni ebrei consumano oltre cinque volte più acqua, godendo di prati verdeggianti e piscine private, l'accesso dei Palestinesi all'acqua è variabile, a volte discontinuo per settimane o mesi, o negato del tutto. Non è raro per interi villaggi di vivere senza acqua potabile, per non parlare di ciò che questo significa per l'agricoltura palestinese.

Travasamento delle acque di superficie

Uno sguardo alla gestione delle acque di superficie fornisce un ulteriore esempio della distruzione di Israele del potenziale idraulico della Palestina. Il fiume Al Auja, che Israele ha ribattezzato Yarkon, era un fiume costiero impetuoso, con una grande varietà di pesci e di specie faunistiche, alcune delle quali non esistono in nessun altro luogo.

Nato nel villaggio palestinese di Ras al-Ayn, è stato descritto in una guida del 1891 come "un fiume ruggente che procede a zig zag fino a gettarsi in mare ... la sua forza alimenta mulini ed è possibile catturarvi piccoli pesci". In un solo un decennio di gestione israeliana dell'acqua della Palestina, questo fiume, fonte di vita, è stato ridotto a un rivolo di acque reflue, la sua acqua dirottata e sostituita con un fango tossico di sostanze inquinanti industriali e domestiche che, nel 1997, hanno corroso i polmoni e gli organi vitali di atleti in gara ai Giochi Maccabiadi, precipitati nel fiume in seguito al crollo di un ponte.

Uno dei primi progetti idrici di Israele quando conquistò l'accesso al Giordano, è stato quello di iniziare la diversione di acqua lontano dai loro vicini, stimolando la Siria e la Giordania a seguire l'esempio di conservare la propria quota di acqua regionale. Decenni dopo, i livelli d'acqua sono così bassi che il fiume Giordano non può più ricostituire il Mar Morto. I livelli dell'acqua in declino, insieme con i "bacini di evaporazione" di Israele per estrarre minerali ed altre attività industriali hanno creato un disastro ambientale mai visto prima in Palestina.

Nel 1950, Israele ha prosciugato le zone umide di Huleh nella Palestina, un tesoro di biodiversità del Medio Oriente, per stabilirvi insediamenti ebraici. Centinaia di questi progetti coloniali hanno notevolmente degradato la ricca diversità biologica e geografica che prosperava in questo territorio dove si incontrano tre continenti.

Un miracolo israeliano?

Così, ignorando la tradizione sionistica di degradare l'ambiente della Palestina e il ruolo fondamentale di Israele nella genesi della crisi idrica in corso, l'articolo di Scientific American pone le basi per spiegare il miracolo di questa risorsa a basso costo, non invasiva, apparentemente illimitata, di acqua dolce. Francamente, questo racconto appartiene ad altri miti come "una terra senza popolo per un popolo senza terra" e Babbo Natale, le sue renne e la fabbrica di giocattoli al Polo Nord.

Mentre la desalinizzazione effettivamente offre promesse e molti vantaggi, non è per nulla miracolosa né è affatto una eccezione in Medio Oriente, dal momento che le nazioni del Golfo alle prese con la sfida dell'acqua hanno impiegato già da tempo nella regione tecniche di desalinizzazione.

Dall'esperienza, sia qui che altrove, sappiamo che, riguardo la desalinizzazione, ci sono pesanti costi ambientali e gravi rischi per la salute, compresi i sottoprodotti di gas a effetto serra e l'inquinamento. Non è chiaro se il costo propagandato di $ 0,58 per metro cubo di acqua include il costo dell'inquinamento o il costo di ampie fasce di prezioso terreno costiero che devono essere utilizzate per le infrastrutture di desalinizzazione. Né vi è stata alcuna menzione sulla nota e prevedibile devastazione della vita marina locale (provocata, n.d.t.) dalle alterazioni fisiche e chimiche dell'ambiente inerenti i processi di desalinizzazione.

Una giusta segnalazione

Negli ultimi due decenni, gli ambientalisti israeliani hanno lavorato per risvegliare la loro società sulla entità della distruzione del mondo naturale locale, ed i loro sforzi, così come la legislazione e i regolamenti, hanno iniziato a mitigare alcuni degli effetti deleteri dell'occupazione, degli insediamenti e delle intense alterazioni dell'ecologia e della geografia da parte di Israele.

Non è un recupero facile, tuttavia, in quanto le politiche di fondo israeliane, sostenute dalla inventiva della colonizzazione bianca, hanno quasi cancellato l'organizzazione sostenibile della civiltà autoctona e della ecologia nativa della Palestina.

E' irresponsabile e disonesto continuare a promulgare il mito romanzato che ispira l'eccezionalità di Israele come peculiarmente brillante, scelto per guidare e ispirare. La vera genialità è l'audace tessitura che maschera i fallimenti economici, ambientali e sociali di Israele, e l'indicibile distruzione da parte della società della vita del luogo, sia umana che non umana.

Scientific American farebbe meglio a fornirci indagini incisive e rendicontazioni oneste sulla moltitudine di sfide ambientali che affliggono l'umanità, in particolare in Medio Oriente, in un periodo senza precedenti di crescita della popolazione, inquinamento, guerre incomprensibili e riduzione delle risorse, piuttosto che promuovere le favole auto-enfatizzanti di uno stato coloniale.

Susan Abulhawa è una scrittrice palestinese-americana e autrice di successo. The Blue Between Sky and Water (Bloomsbury, 2015) è il suo romanzo più recente.

Fonte: Middle East Eye