L’italiana Pizzarotti lavora al tracciato dell’altà velocità israeliana. Attraversa i territori palestinesi occupati, violando i diritti sanciti negli accordi
Da Gerusalemme a Tel Aviv in 28 minuti, contro i novanta di oggi. È la promessa della Tav, la linea ad alta velocità che il governo Israeliano inaugurerà entro il 2016. Chi salirà su uno dei tre treni in partenza ogni ora attraverserà le terre palestinesi, confiscate per la realizzazione di uno dei più grandi progetti che Israele abbia intrapreso negli ultimi dieci anni. Sfrecciando a 200 chilometri orari, dai finestrini scorgerà gli olivi dei villaggi palestinesi di Beit Surik e Beit Iksa, nella West Bank occupata. Ettari sottratti violando il diritto internazionale, che prevede che la forza occupante può utilizzare i territori occupati esclusivamente per motivi di sicurezza e militari, o a vantaggio della popolazione dell’area occupata.
I lavori sono già partiti. Le ruspe scavano da anni. Tolgono zolle di terra, sradicano olivi e orti.
Non sentono le grida della popolazione. I primi cantieri sono stati aperti nel 2005. Oggi a trarre guadagno dal progetto nei territori occupati c’è anche l’Impresa Pizzarotti & C. spa di Parma, che insieme alla Ojsc Mosca Metrostroy, società di proprietà della Federazione russa, è stata reclutata dal governo israeliano per scavare in territorio cisgiordano, proprio di fronte ai villaggi palestinesi, il tunnel più lungo del Paese. Pizzarotti passa così dalla realizzazione del tratto Milano-Bologna della Tav italiana alla Palestina. In origine il contratto per la costruzione di questa parte di linea era stato aggiudicato, nell’ottobre del 2007, all’impresa israeliana Shapir in partnership con l’austriaca Alpine Bau. Un contratto da oltre 2 miliardi di Nis (circa 420 milioni di euro). La costruzione, però, è stata ferma per anni a causa delle obiezioni insistenti di associazioni ambientaliste israeliane. Nel frattempo la Alpine ha fatto retromarcia, lasciando spazio all’italiana Pizzarotti che nei prossimi mesi porterà le macchine di tunnel boring, non in uso in Israele, per perforare la terra occupata.
A lanciare l’allarme è un’organizzazione non governativa israeliana, Coalition of women for peace (coalitionofwomen.org), che ha stilato un dettagliato rapporto sul progetto dal titolo “Una nuova linea ferroviaria israeliana nell’area occupata della West Bank. Chi trae profitto dall’occupazione”. Secondo il documento, presentato anche a Roma, il 18 dicembre scorso, alla presenza di Tamara Traubmann della Coalizione delle donne per la pace, di Mahdi Aljmal del Comune di Beit Surik e di Luisa Morgantini (già vice presidente del Parlamento europeo), vi sono complicità e responsabilità delle aziende internazionali nelle violazioni dei diritti umani commesse da Israele per la realizzazione della Tav. I palestinesi non avranno alcun accesso al treno, non ci sono in progetto stazioni per loro e non si tratta nemmeno di un progetto militare “perciò -spiega Daliut Baum di Coalition of women for peace- non c’è alcuna giustificazione perché questo progetto possa coinvolgere i Territori palestinesi occupati”. In ventotto pagine l’ong israeliana mette a nudo i reali interessi del progetto. Le aziende coinvolte, contattate due mesi prima della pubblicazione del report, non hanno mai risposto. “Le aree palestinesi di Yalu, Bet Surik e Bet Iksa -cita il dossier- sono utilizzate sia per il percorso del treno sia per una rete di strade d’accesso che porta alla costruzione dei siti. I proprietari dei terreni non sono stati adeguatamente informati, e la confisca delle terre non ha seguito le procedure previste dalla legge israeliana. Tutti i ricorsi presentati sono stati respinti. Un’altra questione riguarda l’utilizzo dei materiali frutto dei carotaggi e degli scavi. Si stima che solo per il primo tunnel saranno estratti dal suolo palestinese 530mila metri cubi di materiale. Altri 515mila m3 arriveranno dalle altre due gallerie che attraversano la West Bank. Il diritto internazionale vieta esplicitamente lo sfruttamento delle risorse naturali che sono occupate”. Questo vale anche se i materiali vengono utilizzati in Israele o nel caso in cui siano adoperati nella costruzione delle colonie in territorio palestinese, come suggerito dagli stessi pianificatori del progetto. Che fine farà il materiale estratto dalla Pizzarotti? A prendere posizione contro la scelta dell’impresa di Parma è scesa in campo anche la Federazione italiana lavoratori legno edili e affini (Fillea) della Cgil, e il Dipartimento internazionale della stessa Confederazione. Walter Schiavella, segretario generale della Fillea, a inizio dicembre ha scritto una lettera a Paolo Pizzarotti, presidente del cda dell’azienda, invitandolo “a riconsiderare la partecipazione al progetto, dal momento in cui questo viola i diritti umani fondamentali e le risoluzioni delle Nazioni Unite, mettendo a rischio l’immagine e la credibilità del gruppo”. “La nostra organizzazione è contraria ad ogni forma di boicottaggio -scrive Schiavella nella lettera-, ma non può rinunciare a difendere i principi e i valori fissati dalla Dichiarazione universale dei diritti umani e dalle Convenzioni e Risoluzioni che ne sono scaturite. Tali principi e valori sono stati assunti dal consiglio d’amministrazione della sua società nel proprio codice etico, e sarebbero violati in modo esplicito e incontestabile nel caso di coinvolgimento nei lavori di costruzione del nuovo tracciato, attraverso la società Shapir Pizzarotti Raylways (Spr), della cui proprietà la Pizzarotti spa detiene il 50%”. Interpellato a un mese esatto dalla data della missiva, il segretario generale della Fillea conferma di non avere avuto alcuna risposta da Pizzarotti: “Non mi risulta che ci abbiano scritto. Abbiamo contatti quotidiani con l’impresa di Parma -spiega Schiavella, seriamente preoccupato per la vicenda-, ma non abbiamo avuto alcun responso ufficiale. Èchiaro che dal punto di vista giuridico la Pizzarotti ha una committenza e degli obblighi. Ma la questione è etica. Ecco perché abbiamo voluto prendere una posizione”.
Intanto in Palestina il cantiere resta aperto. Il progetto è stato diviso in quattro sezioni: di queste, una è stata completata e nelle altre tre i lavori sono iniziati. Ad alzare la voce è soprattutto la comunità di Beit Surik, che perderà il 31% delle sue terre. Il passaggio della linea ferroviaria taglierà l’accesso ai campi “in nome della sicurezza”. Un centinaio di famiglie hanno il cappio al collo. Nell’agosto 2010 hanno scritto una lettera ai responsabili del progetto, per chiedere che il tracciato venga modificato, com’è già accaduto dopo la protesta dei coloni israeliano insediati a Mevaseret Sion nel 2005. Nulla da fare: a Beit Iksa l’area confiscata per aprire il cantiere è stata resa inaccessibile ai veicoli, e i contadini che vogliono raggiungere gli oliveti lo possono fare solo con gli asini o a piedi. I residenti temono che una volta realizzata la Tav non potranno più entrare in quel territorio nemmeno a piedi, sempre per “ragioni di sicurezza”. Per i 4mila abitanti di questo villaggio la vita è già stata resa insopportabile dalla costruzione del muro di separazione. Chi aveva un’occupazione a Gerusalemme non ha più potuto raggiungere la città. Il 30% della popolazione vive di agricoltura: si coltivano prugne, olive, pomodori e cetrioli. Gran parte della terra, però, è già stata sottratta dalla recinzione costruita per il cantiere.
Hashem Hababa insegna matematica nel villaggio di Beit Iksa. Mentre stava raccogliendo le olive nella sua terra è stato avvicinato da una jeep dell’esercito. I soldati gli hanno puntato una pistola addosso e gli hanno detto che avrebbero sparato se non tornava al villaggio. Le sue 5 dunams (1,2 ettari) sono già state confiscate. “Nel giugno 2010 l’unica strada di Beit Iksa per il checkpoint di Ramot è stata chiusa senza preavviso -scrivono nel report le Donne per la pace-. L’unico accesso al paese oggi è attraverso un posto di blocco militare speciale. Nel mese di luglio persino i camion che trasportano rifornimenti per il villaggio non sono potuti passare”.
Ma chi trae profitto dall’occupazione e dalla Tav? Il rapporto di Coalition of women for peace ha individuato tutte le aziende internazionali coinvolte: la Deutsche Bahn e la già citata Mosca Metrostoy, ma anche la Haerter HBI. Amy Metom Engineers and Consultants, società privata israeliana, è stata incaricata da Ferrovie israeliane di pianificare l’intero percorso. DB Internazional, del gruppo Deutsche Bahn, che appartiene al governo tedesco, ha stipulato un contratto di 550 milioni di dollari per un progetto di elettrificazione da realizzare entro il 2013. L’americana Parsons Brinckerhoff ha fornito al ministero israeliano una consulenza sulla gestione dei servizi finanziari. Di ventilazione delle gallerie si è occupata per Amy Metom nel 2006 anche HBI Haerter, società di ingegneria svizzera. A.B. Piano, società privata israeliana, è stata contrattata dal ministero dei Trasporti per verificare la fattibilità economica della linea ferroviaria. A fornire la supervisione di garanzia e controllo di qualità per la Spr di Pizzarotti è la ditta privata israeliana Yugan Engineering.
Del coinvolgimento dell’azienda italiana nella costruzione della ferrovia ad alta velocità Gerusalemme-Tel Aviv si è occupata anche la Sessione internazionale del Tribunale Russell, che si è svolta dal 20 al 22 novembre scorso a Londra grazie a Luisa Morgantini. A Bologna, intanto, il 5 gennaio il movimento Bds, boicottaggio disinvestimenti e sanzioni, ha discusso
possibili azioni di pressione su Pizzarotti.
Pizzarotti, un cavaliere emiliano
Tante autostrade e ferrovie, ma anche lavori nelle basi militari Usa nel curriculum del gruppo di Parma
Il dottor cavaliere Paolo Pizzarotti, classe 1947, guida l’azienda di famiglia da quando ha 19 anni. Controlla il 92,4% delle azioni dell’Impresa Pizzarotti & C spa attraverso la holding Mipien spa, società attiva nell’ambito di servizi di carattere generale rivolti alle società controllate, che gestisce una serie di partecipazioni strategiche per l’attività del gruppo.
La società ha un capitale sociale di 15milioni di euro e un patrimonio netto di 18.654.037. Il cavaliere-presidente ha persino un sito personale, www.paolopizzarotti.it, che segnala una laurea in giurisprudenza presso l’Università di Parma, la nomina a Cavaliere del lavoro nel giugno 1989 e le grandi opere del gruppo. Un elenco infinito, che riassumiamo sommariamente: il modulo di scambio stazione ferroviaria Alta velocità/rete metropolitana regionale nell’aeroporto Charles de Gaulle a Roissy (Parigi); la costruzione di un impianto idroelettrico a Pagsanjan, nell’isola di Luzon (Filippine); la realizzazione della linea ad Alta capacità Milano-Bologna per conto di Tav spa; la costruzione della galleria di Sedrun, in Svizzera, sulla linea ferroviaria del Gottardo per conto di Alptransit; la realizzazione delle gallerie di prospezione della nuova tratta ferroviaria ad Alta velocità Torino-Lione. Ci sono poi altri importanti cantieri in Francia, Romania, Algeria e Marocco. E, ancora, i lavori per conto di Anas spa: la realizzazione del tratto autostradale Catania-Siracusa. Infine, una serie di lavori di carattere militare per conto del Governo degli Stati Uniti d’America, ovvero la costruzione di Sigonella e lavori alla Ederle di Vicenza, a Comiso, a Camp Darby e alla Maddalena. Nel 2006 ha acquisito il controllo della Garbali spa, società di costruzioni allora quotata in Borsa. Paolo Pizzarotti, da molti anni consigliere di amministrazione della “Gazzetta di Parma”, il più antico quotidiano d’Italia, è oggi impegnato in diverse attività imprenditoriali, anche fuori dal campo delle costruzioni. In particolare, ha promosso la costituzione di una compagnia di trasporti aerei, Aliparma srl, operante nella business aviation, e di una società di produzione vinicola, Monte delle Vigne srl, ai vertici dell’eccellenza nazionale. Si parla di lui anche negli anni di Tangentopoli, che il cavaliere attraversa quasi indenne.
In Mani Pulite di Marco Travaglio, Peter Gomez e Gianni Barbacetto la Pizzarotti viene descritta come una delle tre imprese che ringraziava il sistema dei partiti: Pizzarotti provvedeva alla Dc.
Lo ammette lui stesso in una confessione riportata nel libro, in merito all’inchiesta sull’aggiudicazione dei lavori di Malpensa 2000. E il 21 settembre del 1994 i giudici della sesta sezione penale di Milano accolsero undici richieste di patteggiamento, tra cui quella di Paolo Pizzarotti, che concordò una pena di un anno e un mese oltre a 560 milioni di risarcimento. Venne assolto per presunte tangenti all’Enel, e la Cassazione lo assolse anche dalle accuse relative a presunte irregolarità relative agli appalti per la strada Ofantina, in Campania.
Il nome di Pizzarotti spunta anche nelle relazioni della Commissione parlamentare antimafia: il pentito Pasquale Galasso sembrava indicare in imprese come la Pizzarotti le vittime di un gioco estorsivo che vedeva da una parte notabili democristiani e dall’altra boss come Raffaele Cutolo.
L’ipotesi sembrò confermata nel 2003 quando la Dia di Napoli registrò che la camorra era riuscita a estorcere denaro a diverse imprese di livello nazionale come la Pizzarotti. Un ingegnere della Pizzarotti fu persino schiaffeggiato da un camorrista. Oggi Pizzarotti può contare su un vero e proprio impero: oltre mille dipendenti, affari in tutto il mondo, amicizie con tutto l’arco dei partiti, con le cooperative, con la Fiat.
Nel curriculum dell’impresa ci sono lavori di ogni tipo: dal restauro di palazzo di Giustizia a Roma al nuovo centro Lingotto di Roma, ai lavori di consolidamento di Paestum e al Nuovo Polo Fiera di Milano a Rho ma anche il nuovo mercato agrolimentare di Napoli, il nuovo deposito ferroviario di Cosenza e l’ospedale di Sassuolo a Modena. Pizzarotti, che nel 2009 ha fatturato 478 milioni di euro (ed è all’82° posto nella classifica delle imprese europee di costruzioni) non ha conosciuto la crisi. Non solo quella economica, ma anche quella dei continui cambi di governo.
Fonte: Altreconomia