La Valle del Giordano è una striscia di terra lunga 120 chilometri, dal lago Tiberiade al Mar Morto, lungo le rive dell'omonimo fiume. Una vallata rocciosa semidesertica dai paesaggi mozzafiato, con un sottosuolo ricco di acqua. Una condizione che ha permesso la presenza di insediamenti umani fin da tempi remotissimi.
La Valle del Giordano è la parte più estesa dell'area C, ovvero sotto il controllo militare e civile israeliano, di tutta la West Bank.
Il 40% del territorio è stato dichiarato zona militare mentre un altro 50% è occupato dalle colonie (37, che ospitano poco più di 9 mila persone), le comunità di palestinesi e beduini ridotte alla precarietà e ai margini.
Lungo la strada che taglia in due la Valle sterminate piantagioni, soprattutto di palme di datteri. Terre sottratte ai palestinesi e in mano a un basso numero di coloni, latifondi dove lavora a nero e senza diritti la manodopera palestinese, pagata anche un quarto della paga base prevista dalla legislazione israeliana.
Diverse le agenzie per il rispetto dei diritti umani che hanno denunciato negli anni l'utilizzo di manodopera minorile nella raccolta e nell'imballaggio.
Prima dell'occupazione del 1967 vivevano in questa striscia di terra più di mezzo milione di palestinesi, ora ne sono rimasti circa 50 mila. Scacciati dalla guerra, costretti ad andarsene dall'impossibilità di sopravvivere senza terra e senza l'acqua per far crescere le piante e abbeverare le greggi.
Le prime terre ad essere confiscate sono state quelle al ridosso del Giordano, poi l'espansione lungo la pianura ha occupato le terre più fertili. Al momento gli insediamenti agricoli occupano 54 mila dunum (1000 metri quadri), a fronte dei 14 mila coltivati dai villaggi palestinesi. Una nuova norma permette ai coloni di arrivare fino a 110 mila dunum.
Raed, 27 anni, nato e cresciuto qui da una famiglia rifugiata nella Valle del Giordano in seguito alla Nakba, ci guida alle fonti d'acqua gestite da Mekorot (l'azienda idrica israeliana), che ha prosciugato i pozzi prima utilizzati dai beduini e dai campi dei palestinesi per portare l'acqua fino alla zona di Ramallah. Le fonti dove arriva Mekorot sono anche a 350 metri di profondità, mentre gli agricoltori palestinesi, qualora avessero il permesso, possono arrivare fino a 150 metri.
Mentre camminiamo incontriamo un pastore beduino con il suo gregge che, grazie alla traduzione di Raed, ci spiega come debba comprare l'acqua per la sua famiglia e il gregge, quando l'unico rivolo di acqua d'estate si prosciuga.
Raed è stato un'attivista di Save the Jordan Valley, campagna principalmente finalizzata ad aiutare le famiglie palestinesi a rimanere nella Valle. Certo è dura “ma non ho nessuna intenzione di andarmene, voglio vivere e lavorare qua”, spiega.
Qui la linea del colore e dell'apartheid si incrociano in maniera lampante con le differenze di classe.
Al villaggio di Frosh Beit Dajan, 1200 abitanti (fino al '67 erano 6 mila) la quasi totalità dei quali impiegati nell'agricoltura e nella pastorizia, ci accoglie Azee, attorno al tavolo ci racconta le difficoltà della cooperativa di agricoltori di cui fa parte.
Qui coltivano vite, pomodori e cetrioli in serra, fagioli e altri legumi, ma soprattutto agrumi. Prima dell'arrivo delle colonie coltivavano 2000 dunum di terra, ora appena 300.
L'acqua arriva da 9 pozzi differenti, quattro dei quali ormai esauriti. Di tanto in tanto gli ispettori israeliani vengono a controllare che i pozzi non superino la profondità consentita. L'acqua è comunque troppo poca per coltivare tutta la terra, così di anno in anno delle colture vengono abbandonate o gli alberi tagliati.
Prima dell'arrivo dei coloni l'acqua non mancava, ora le colonie hanno ha disposizione l'87% delle risorse idriche, 9 milioni di metri cubi d'acqua. La speranza è di riuscire, con l'aiuto di un villaggio vicino, a portare una fonte d'acqua naturale fino ai campi.
Azee racconta gli effetti di quella che chiama “l'occupazione più lunga al mondo”.
"Quando era generale, Sharon diceva che se non potevano deportare le persone le avrebbero costrette ad andarsene, e questo sta accadendo. Ma noi non ce ne vogliamo andare – spiega Azee mentre indica anche i suoi compagni. Vogliamo continuare a vivere e coltivare qui le nostre piante”.
Torniamo indietro e i due ragazzi che ci accompagnano ci chiedono se vogliamo andare al Mar Morto, loro non ci sono mai stati se non da ragazzini. Torniamo indietro e andiamo verso il mare, che è confine più che luogo di scambi da queste parti.
Proviamo ad avvicinarci con il nostro taxi con targa palestinese ma ci viene fatto presente, da un israeliano che esce dallo stabilimento balneare, che con questa macchina non si può entrare.
Proviamo a trovare un altro posto per mettere i piedi nell'acqua ma ci troviamo di fronte le reti che delimitano un campo minato.
L'apartheid passa anche per la libertà di farsi un bagno.
Fonte: Osservatorio Iraq