L’83% dell’acqua dei Territori Occupati è controllata da Israele: le comunità palestinesi in Cisgiordania dipendono dalla compagnia israeliana Mekorot, mentre a Gaza il 90% dell’acqua non è potabile.

Sono quasi cinque mesi che non piove in West Bank. Ma non è per questo che nelle case e nei villaggi palestinesi non c’è acqua. Il problema è l’apartheid che trasforma l’accesso all’acqua da un diritto umano inalienabile a uno strumento di oppressione e ricatto.

Per questo motivo sono diverse le realtà palestinesi che si occupano proprio di acqua: associazioni ambientaliste, ong, centri di studio. Un patrimonio di saperi, ricerche e pratiche che stiamo incontrando in questi giorni per rendere stabili e proficue le relazioni tra i movimenti per i beni comuni in Italia, a partire dalla contestazione dell’accordo tra Mekorot (l’azienda israeliana che si occupa delle risorse idriche) e la ex-municipalizzata dell’acqua romana Acea.

Negli uffici del Pengon (Palestinian Environmental NGOs Network) a Ramallah, un coordinamento di 17 organizzazioni che si occupa di ricerche sulle questioni ambientali e tra gli animatori della campagna contro le politiche di Mekorot, al servizio dei programmi di occupazione e che fa profitti rivendendo a condizioni svantaggiate l’acqua alla popolazione palestinese. Addirittura in alcune zone le famiglie palestinesi devono pagare preventivamente, tramite delle carte prepagate, l’acqua che consumeranno. Israele controlla l’83% dell’acqua nei territori occupati, garantendosi il controllo delle principali falde acquifere, dirottandola chiaramente verso le colonie israeliane garantendo il loro sviluppo, prima di tutto agricolo. Il regime di occupazione fa il resto: divieto di scavare i pozzi oltre una certa profondità e allacciarsi alla rete idrica per molti villaggi. Se Ramallah dipende per il 70% da Mekorot, il 40% delle comunità nel South Hebron Hills non hanno invece accesso all’acqua, il 70% delle comunità non ha invece impianti di depurazione per l’acqua raccolta o per quella proveniente dai pozzi.

Se l’Organizzazione mondiale della sanità prevede 100 litri al giorno procapite, nei territori spesso si arriva a mala pena a 10 litri. Una violazione di almeno una decine di convenzioni internazionale per i diritti umani per cui Israele, ça va sans dire, non subisce nessuna sanzione. Ancora peggio la condizione a Gaza, dove il 90% dell’acqua non è potabile e i programmi di desalinizzazione dal mare rischiano di essere controproducenti, a causa di difficoltà tecniche. Al pari della rete elettrica durante i 51 giorni di bombardamenti di Margine Protettivo, nel mirino dell’esercito israeliano sono finite anche le infrastrutture idriche, contribuendo al collasso umanitario nella Striscia. Minare la possibilità stessa della presenza palestinese in ampie zone dei territori occupati, per costringere la popolazione in enclave potenzialmente sigillabili, l’obiettivo della governance israeliana: altrimenti come giustificare la distruzione di 173 strutture per la raccolta dell’acqua, molti dei quali secolari, realizzata solo tra il 2009 e il 2011?

 

A Betlemme ha sede Arij (Applied Research Institute – Jerusalem), centro studi che oltre a produrre analisi e ricerche, prova a mettere in pratica e sperimentare soluzioni concrete per la vita nei territori e la tutela dell’ambiente. Dall’incontro con i ricercatori ci è stato chiaro come l’occupazione e gli insediamenti stiano radicalmente modificando, forse in maniera irreversibile, la morfologia e gli equilibri naturali del territorio, a cominciare dalle risorse idriche. La deviazione e lo sfruttamento del fiume Giordano (unica fonte acqua di superficie) ha portato al prosciugarsi del lago di Hula, stessa sorte a cui sembra destinato il lago Tiberiade. Nel frattempo, con il finanziamento della Banca Mondiale, Israele, in concerto con la Giordania e la stessa Autorità palestinese ha in programma il faraonico progetto di riversare l’acqua del Mar Rosso nel Mar Morto, così da garantire il drenaggio dell’acqua e al contempo garantire il turismo. Prosciugare i fiumi per far fiorire il deserto, nuove terre fertili per gli insediamenti al costo della distruzione di un ecosistema e alla trasformazione radicale della geografia umana e naturale di un’intera regione.

Jeb Al Theeb è un piccolo villaggio a una mezz’ora di macchina da Betlemme. Qui il tempo non si è fermato, è tornato indietro a causa dell’occupazione. Ad accoglierci un gruppo di donne che racconta cosa vuol dire vivere qui. Mentre arriviamo abbiamo visto i pali della luce abbattuti: gli abitanti avevano provato nottetempo a tirare su la rete elettrica, ma l’esercito non era dello stesso avviso “non avevamo il permesso e questa è area C, qui ogni cosa deve essere autorizzata, le stesso nostre case per loro sono abusive”. Così il villaggio ha solo un paio d’ore al giorno garantite da un piccolo generatore, con le ovvie conseguenze sulla vita materiale e la possibilità di sviluppo economico. A Jeb Al Theeb poi l’acqua non arriva proprio: il rubinetto di Mekorot è nelle mani dei coloni. Mentre qui l’acqua non c’è a poche centinaia di metri una lussureggiante e fertile fattoria, nella colonia di Sde Bar. In mezzo gli olivi dei palestinesi, dove però non possono arrivare. A circondare Jeb Al Theeb Nokdim, la colonia casa anche del ministro degli Esteri e leader del partito di destra Israel Beytenu, Avigdor Lieberman, poi Tekoa e Kfar Eldad. Sopra Jeb Al Theeb svetta Herodion una dei più importanti siti archeologici della Palestina, sfruttata esclusivamente da Israele e off limits per i palestinesi, ad aspettarli un check point e una piccola base militare.

Fonte: Nena News