Dr. Dalit Baum e Merav Amir stanno conducendo una risoluta battaglia economica contro le imprese che operano al di là della linea verde. Il loro studio fa l'identikit di tutte queste società e serve come una base per il boicottaggio in tutto il mondo, che è in espansione. In un'intervista al supplemento Calcalist spiegano che non sono estremiste - è solo che la Dankner, la Levayev, le Arison e circa un migliaio di altre aziende stanno violando il diritto internazionale
Ari Libsker, Supplemento Weekend di Calcalist, 17 giugno 2010
L'arrembaggio israeliano alla flottiglia diretta a Gaza ha innescato una serie di tsunami, dal settore politico all'area del volontariato. Nel frattempo, ha sollevato la questione del boicottaggio economico delle aziende israeliane. Il più grande sindacato in Gran Bretagna ha votato per il boicottaggio, i lavoratori portuali in Europa rifiutano di scaricare le navi israeliane e questa settimana si è scoperto che delle imprese europee hanno contattato aziende israeliane con le quali hanno rapporti di lunga data per assicurarsi che non operassero nel settore della difesa. Se fosse così, hanno spiegato i partner europei, saremmo costretti a interrompere le relazioni; i codici etici delle nostre aziende ce lo impongono.
La flottiglia era solo la goccia che ha fatto trabbocare il vaso; misure per interrompere i rapporti sono in corso da mesi. Poche ore prima del raid sulla nave Marmara, ad esempio, i media hanno riferito che la Deutsche Bank aveva venduto tutte le sue azioni della società high-tech israeliana Elbit. Secondo le notizie, l'amministratore delegato del più grande gruppo bancario in Germania ha annunciato, durante l'assemblea annuale degli azionisti, la liquidazione di 50 mila azioni entro due mesi. Due organizzazioni politiche internazionali hanno rapidamente accolto con favore la decisione e hanno spiegato che era il risultato di una campagna contro l'investimento da parte della Deutsche Bank nella società israeliana che produce sistemi di sicurezza. Poche ore dopo le prime notizie, la Deutsche Bank ha pubblicato una smentita, spiegando di non essere mai stata in posseso di azioni dirette della Elbit e quindi ovviamente di non averle vendute, ma il chiasso era già stato fatto.
Quattro mesi prima Elbit era già stata inserita in un'altra "lista nera" - l'elenco delle società nelle quali la banca danese Danske Bank non investirà a causa del loro coinvolgimento in affari nei territori occupati. Elbit è stata inserita nella lista in quanto produttore di apparecchiature per la sicurezza lungo il muro di separazione, insieme a Africa-Israele, a causa dei suoi progetti di costruzione negli insediamenti. Nel mese di dicembre è stata invece una banca belga ad inferire un duro colpo: si è scoperto che Dexia Israele - una banca di proprietà del governo belga che dava prestiti consistenti agli enti locali in Israele, in collaborazione con il ministero delle finanze – ha rifiutato di prestare denaro alle amministrazioni locali degli insediamenti nei territori occupati. La Dexia ha sostenuto che stava solo seguendo le procedure, mentre le autorità negli insediamenti nei territori occupati hanno affermato che la banca stava usando deboli scuse ufficiali, e il tutto ha fatto molto rumore.
Dr. Dalit Baum e Merav Amir hanno seguito tutto il frastuono dei media da lontano. Preferiscono rimanere dietro le quinte: per creare il tuono, ma poi essere lontane dalla scena quando viene notato dai media. Le due donne sono responsabili del progetto "Chi profitta dall'occupazione" che fa l'identikit delle aziende israeliane che traggono profitti dalla presenza israeliana nei territori occupati. Baum e Amir, con altre 10-20 attiviste, fanno uno studio approfondito su ogni società "sulla base di relazioni della borsa, notizie sui giornali e altro", spiega Amir. La loro attività ha una forte impronta d'attivista: è intrapresa nell'ambito della Coalizione delle Donne per la Pace, un'organizzazione ombrello che conta tra i membri gruppi come Donne in nero e Machsom Watch ed è finanziata da donatori statunitensi e vari fondi attraverso il New Israel Fund.
E così, mentre il Consiglio di Yesha [che rappresenta i coloni in Cisgiordania - ndt] era furioso con la Dexia e ha attribuito la loro decisione di cessare i prestiti alla pressione esercitata dagli Arabi e dagli antisemiti attivi contro Israele, in realtà tale decisione è stata determinata dal lavoro di due laboriose donne nel cuore di Tel Aviv. "L'Inatl, un'organizzazione belga per i diritti umani ha trovato il nostro sito web, ha letto i nostri rapporti sui finanziamenti da parte della Banca Dexia alle amministrazioni degli insediamenti nei territori occupati e ha iniziato ad agire", racconta Amir su come si è sviluppata la storia. "In seguito al crisi finanziaria globale, la banca è stata nazionalizzata dal governo belga e così è diventata una risorsa nazionale. Questo ha consentito di fare pressioni che hanno dato risultati".
Non trovate che sia un po' da estremiste? Nemmeno voi sostenete che queste aziende sono produttrici di armi o collaboratrici dell'esercito o che contribuiscono alla costruzione del muro.
Baum: "Le aziende israeliane che hanno interessi e affari all'estero o sono proprietà straniera, sono soggette a leggi diverse, anche se operano in Israele secondo la legge israeliana. Il management belga della Dexia è soggetto alla legge belga, secondo la quale la fornitura di servizi agli insediamenti vuol dire aiutare a trasferire la popolazione di una forza di occupazione in un territorio occupato".
Le aziende straniere non vogliono correre il rischio e sporcarsi le mani
Baum è docente presso il Dipartimento per gli studi di donne e di genere presso l'Università di Haifa, e Amir è una dottorando presso l'Istituto Cohn per la Storia e la Filosofia della Scienza e delle Idee all'Università di Tel Aviv. Ci siamo incontrati al Café Bialik a Tel Aviv e da lì abbiamo passato in rassegna tutto il mondo, toccando le attività che riguardano centinaia di aziende, banche e imprese.
Prendiamo il caso norvegese. Il governo norvegese amministra un fondo pensione nazionale che gestisce le entrate dello Stato dalle sue risorse petrolifere e assegna le quote di pensione per tutti i residenti. Nel settembre 2009 gli amministratori del fondo hanno ritirato la somma di 5,4 milioni di dollari di investimenti da Elbit, spiegando che non erano disposti ad avere il nel loro fondo una società che contribuisce così direttamente alla violazione del diritto internazionale. "Siamo stati molto attivi in tutta questa storia", dice Amir. "E quando dico 'noi' intendo varie organizzazioni di sinistra in Israele, ma senza dubbio il principale catalizzatore per lo svilupparsi dell'iniziativa è stata la ricerca che sta dietro il sito". Baum aggiunge con orgoglio: "Abbiamo pubblicato una lettera aperta sulla stampa norvegese invitando il fondo pensione a ritirare il proprio sostegno da Elbit. Abbiamo ricevuto subito una risposta e, successivamente, abbiamo incontrato una delegazione del fondo che è venuta in Israele. Abbiamo dimostrato il coinvolgimento dell'Elbit nel regime di controllo del muro di separazione". Tale coinvolgimento da parte di Elbit è costituito dall'applicazione del sistema di sorveglianza "Lapid" progettato specificamente per il muro (Elbit non ha fornito una risposta).
Il comitato etico del fondo norvegese è stato convinto, il denaro è stato ritirato, e il ministro delle Finanze Kristin Halvorsen ha annunciato che il suo governo non dovrebbe finanziare società che contribuiscono in modo diretto alla violazione del diritto internazionale. "C'era chi, agendo in automatico, se la prendeva con i norvegesi e li definiva 'anti-semiti, odiatori di Israele'", ha detto Amir. "Basta guardare quello che è stato scritto sui giornali in Israele. Ma in molti casi, gli europei semplicemente insistono sul rispetto per il diritto internazionale. Questa è una visione che manca al pubblico israeliano - che ci sia qualcosa di non legittimo per quanto riguarda gli insediamenti. Il coinvolgimento economico e degli affari negli insediamenti non è percepito dal mondo come un legittimo coinvolgimento delle imprese".
Una delle società che l'ha capito è l'Unilever. La gigantesca società detiene il 51% di Bagel Bagel, che produce biscotti e altri snack nella zona industriale di Barkan nei pressi dell'insediamento di Ariel. La base principale della società sta in Olanda, cosa che la espone a pressioni locali. Un gruppo di attivisti di sinistra olandesi che fanno parte di 'Cittadini uniti per la Pace' ha studiato i legami tra società olandesi e imprese operanti nei territori occupati, e ha lavorato, tra altri, con Baum e Amir. Quando ha scoperto il legame tra l'Unilever e i territori occupati ha iniziato ad applicare forti pressioni. "Hanno condotto una campagna molto seria", dice Baum. "Si sono messi in contatto con i comitati dei lavoratori e hanno pagato grandi pubblicità sui giornali invitando la società ad interrompere i suoi rapporti con i territori occupati. In questo modo hanno creato la pressione dell'opinione pubblica senza un boicottaggio dei consumatori, che è solo uno degli strumenti possibili. La loro tecnica era quella di cercare di informare la società sull'occupazione, sulla zona industriale di Barkan e sulla storia del territorio su cui è stata costruita la fabbrica. Alla fine l'Unilever ha detto: 'Non siamo disposti a far parte di questo, è contro la nostra politica ed etica'. Hanno capito che non valeva la pena per loro correre il rischio di macchiare la propria reputazione di prestigio a causa di un piccola impresa. Sono andati dai loro partner, la famiglia israeliana Bagel, e gli hanno chiesto di trasferire la fabbrica dentro la linea verde. La famiglia Bagel ha rifiutato per motivi ideologici, e da allora l'Unilever sta cercando di vendere la sua quota della società". Bagel Bagel - Unilever ha dichiarato: "L'Unilever sta lavorando da molti anni per semplificare l'organizzazione, incentrare e aumentare gli investimenti in un numero minore di tipologie di prodotti e marchi nel core business della società. Nell'ambito di tale processo le attività che non erano nel core business sono state vendute e la società ha, tra le altre cose, deciso di lasciare l'area dei prodotti da forno e di cercare un acquirente per la sua quota di Bagel Bagel. Il processo di vendita è ancora in corso".
Levayev, Dankner, Arison, Tshuva. Ci sono tutte
Uno sguardo al sito web di "Chi profitta dall'occupazione" rivela che quasi tutte le grandi imprese nell'economia israeliana hanno motivo di temere casi simili a quelli di Elbit e di Bagel Bagel sugli affari all'estero e sui partenariati internazionali. Ci sono circa 400 aziende sul sito; e nei file di Baum e Amir non pubblicati, ce ne sono altre 600. I nomi sono ben noti: Africa-Israele, ad esempio, è entrata nella lista a causa della costruzione negli insediamenti attraverso la Danya Cebus e delle sue partecipazioni in Dor Alon, che controlla la fornitura di petrolio e di gas a Gaza. È inclusa anche l'IDB di Nohi Dankner in quanto la sua Celcom opera nei territori occupati, e secondo Baum e Amir, sfrutta varie restrizioni sulle società palestinesi per aprofittare della situazione attuale, come proprietario della società FiberTech a Karnei Shomron, coinvolta nella costruzione di infrastrutture nei territori occupati. Nella lista c'è anche la Nesher Cement di proprietà di Klal Industries la quale trae profitti dalla costruzione del muro di separazione e delle infrastrutture nei territori occupati. È inoltre possibile trovare nell'elenco la Delek di Tshuva, la Solel Boneh di Arison, tutte le grandi banche, le compagnie petrolifere e delle comunicazioni e le catene come Café Café e Castro.
Non dovrebbe soprendere: in 43 anni il dominio israeliano ha profondamente intrecciato l'economia locale nei territori occupati, i quali nel corso degli anni sono serviti quale comodo luogo per l'industria manifatturiera - così anche come nuovo mercato emergente, israeliano e palestinese. Ora ci sono più soggetti che cercano di cambiare questa situazione. Da una parte c'è l'Autorità palestinese, che ha di recente lanciato un boicottaggio dei prodotti degli insediamenti e ha in programma di vietare ai propri residenti di lavorare nelle fabbriche israeliane nei territori occupati e nella costruzione degli insediamenti. D'altra sono in aumento le pressioni delle organizzazioni estere, soprattutto europee, per rafforzare il boicottaggio dell'economia israeliana in generale e delle imprese negli insediamenti in particolare. In mezzo ci sono Baum e Amir. Entrambe temono l'attacco israeliano agli attivisti di sinistra che sostengono il boicottaggio d'Israele; entrambe hanno esitato prima di essere intervistate e Amir ha rifiutato di farsi fotografare. Sono consapevoli che le diverse pressioni in atto, oggi, potrebbero avere conseguenze di vasta portata per l'economia israeliana, ma non è quello il loro obiettivo, dicono. "Il nostro obiettivo è quello di porre fine all'occupazione".
Come vi è venuta l'idea di creare il sito?
"In una serie di discussioni sull'aspetto economico dell'occupazione tenute nell'ambito della nostra Coalizione è stata sollevata la questione di come avremmo potuto contribuire alla lotta contro l'occupazione nel settore commerciale-economico. La conclusione è che c'è un cambiamento nel modo in cui gli organi internazionale trattano la situazione nei territori occupati. L'attivismo economico è accettato in tutto il mondo e ha una storia gloriosa. Negli ultimi anni, ad esempio, abbiamo assistito alla campagna pubblica e globale contro la Nike per le condizioni di laovoro nelle sue fabbriche e la campagna di vegetariani e vegani contro McDonald's. Oggi ci sono grandi campagne nei confronti dei prodotti provenienti dall'Iran e dalle società iraniane a causa della violazione dei diritti umani. In Israele conosciamo questo tipo di attivismo soprattutto dalle mobilitazioni dei lavoratori o dei boicottaggi dei consumatori da parte dei haredi, ma non era conosciuto qui in passato nella lotta contro l'occupazione".
L'economia israeliana trae profitti dall'occupazione?
Baum: "Assolutamente sì. Shlomo Svirsky scrive da anni che l'occupazione ha un prezzo pesante. Ma il denaro che va a spese della sicurezza e della costruzione degli insediamenti, tutte le cose che Svirsky vede come spese, noi li riteniamo invece utili che portano alla crescita dell'economia israeliana".
Amir: "Una situazione che non è economicamente fattibile non può durare per anni. Se la situazione si è protratta per decenni, allora qualcuno ne ha tratto dei profitti. Non è possibile pagare sempre perché una società non può pagare pesanti prezzi economici senza una motivazione economica. Abbiamo detto: 'Decostruiamo questa entità chiamata occupazione e vediamo dove sono i soldi, dove ci sono gli interessi".
Come è possibile che due donne dagli studi umanistici possano riuscire a decostruire gli interessi economici? Quali strumenti avete per farlo?
"Credo che il fatto stesso che l'economia è diventata qualcosa di inaccessibile a chiunque non abbia avuto una formazione accademica è ciò che permette dogmi molto specifici di dominare il discorso economico. Non facciamo l'analisi economica delle imprese e dei loro profitti o delle perdite o della loro fattibilità economica. Dobbiamo solo indicare il loro coinvolgimento commerciale nei territori occupati, che può essere scoperto facilmente dalle pubblicazioni e dalle relazioni proprie delle imprese".
È un lavoro arduo. Per un anno Baum e Amir hanno visitato tutte le zone industriali nei territori occupati, hanno documentato tutte le aziende che vi operano e hanno rastrellato tutte le informazioni sui media e rapporti e documenti vari. Solo a febbraio 2009 hanno pubblicato il sito web. Tutto il materiale che hanno raccolto ridefinisce il termine 'economia degli insediamenti'. "In passato il prodotto degli insediamenti era visto come la cosa principale", spiega Baum. "Ma in realtà l'industria degli insediamenti non è la fonte principale sulla quale si base l'economia degli insediamenti. Quando si parla di economia degli insediamenti, la parte industriale e agricola è di piccole dimensioni. Quello che sostiene veramente gli insediamenti sono due cose: prima di tutto il settore delle costruzioni. Se si esamina dove l'industria delle costruzioni è cresciuta nell'ultimo decennio, si vede che è cresciuta soprattutto nei territori occupati; all'interno della Linea Verde il settore rimane piuttosto statico. Le grandi imprese di costruzione sono quelli che hanno beneficiato di questa crescita, soprattutto l'Africa-Israele, Shikun e Binui e tutti i loro affiliati. L'altra cosa principale sono le infrastrutture e i servizi. Tutte le società di comunicazione e le catene di supermercati consentono agli insediamenti di esistere. Questo include anche i mezzi pubblici.
"Al terzo posto è quello che noi chiamiamo il controllo della popolazione. Comprende il muro, i posti di blocco e tutto ciò che limita la circolazione dei palestinesi - le strade ad uso esclusivo degli ebrei, le zone di sicurezza, ecc. Il muro è il più grande progetto nazionale che Israele abbia mai intrapreso. Si tratta di un progetto che ha già superato il suo budget e in prospettiva c'è anche la manutenzione. Non è che hanno solo costruito il muro e poi se ne sono andati a casa".
Un'altra fonte è il settore al dettaglio palestinese. "I palestinesi non possono raggiungere le condizioni di produzione dignitose nelle loro fabbriche, che una volta funzionavano", dice Baum, "e a causa dei i posti di blocco, della separazione e della dogana non possono importare o esportare in modo indipendente. Devono passare attraverso Israele e questo aumenta i costi. Inoltre, ci sono intere categorie di prodotti che non possono essere esportati o importati e sono costretti ad acquistarli da Israele. Quindi, molti esportatori israeliani traggono un profitto non indifferente dalla situazione attuale, e quindi hanno un interesse a mantenerla, insieme al sistema dei posti di blocco, che danneggia i loro concorrenti in Cisgiordania. Il mantenimento di una situazione di sottosviluppo nei territori occupati permette a loro di scaricare prodotti meno costosi sul mercato palestinese, prodotti che forse non avrebbero avuto modo di sbarazzarsene altrove. Abbiamo scoperto che la maggior parte delle industrie alimentari israeliane inondano il mercato palestinese con le loro merci."
Merci difettose?
Baum: "Beni poco costosi, perché è un mercato a basso prezzo che dista solo 20 minuti dalla fabbrica. Possono vendere prodotti che non avrebbero potuto vendere in Israele a buon prezzo.
Amir: "Cioè, tutti i prodotti la cui data di scadenza è vicina".
Quali sono le aziende di cui parlate?
Amir: "Andate in qualsiasi negozio di alimentari palestinese e vedrete che ci sono pochissimi prodotti locali. I prodotti sono israeliani. Non era così in passato. C'era una produzione interna e una relativa indipendenza economica. Oggi non si può parlare affatto di questo perché tutti i prodotti sono israeliani, da tutte le aziende".
Baum: "Si tratta davvero di tutte le aziende. Non ci lamentiamo delle società o diciamo loro di non vendere là. Quello che vogliamo è aprire un dibattito politico in Israele sul fatto che le grandi catene e i produttori di prodotti alimentari hanno tutto l'interesse a mantenere l'attuale situazione: il controllo costante del mercato palestinese".
Non siamo politici, stiamo solo mostrando le cose come stanno
La vendita dei prodotti è solo un aspetto. Un altro è quello dei servizi. Secondo gli accordi di Oslo, le società israeliane non sono autorizzate a fornire servizi ai palestinesi senza il consenso della ANP, ma hanno trovato un escamotage. "Le società palestinesi di telefonia mobile non sono autorizzate a costruire antenne nella zona C, che costituisce il 60% della Cisgiordania, senza permesso, ed è molto difficile ottenere un permesso per un'antenna. Si possono erigere antenne a Ramallah e Nablus, ma non c'è segnale fuori delle città. Le aziende israeliane sono invece dispiegate su tutto il territorio, hanno centinaia di antenne, quindi non solo forniscono servizi agli insediamenti, ma in maniera non ufficiale e di nascosto forniscono anche servizi ai palestinesi".
Lo fanno illegalmente?
Baum: "Se vogliono vendere abbonamenti nei territori occupati devono pagare le imposte all'ANP e preferiscono evitarlo. Così non permettono ai palestinesi in Cisgiordania di abbonarsi con carta di credito. Gli vendono solo carte prepagate pagate in contanti, e in questo modo riescono ad aggirare la questione fiscale. Io lo chiamo 'un insediamento nell'etere'. Dopo tutto, le bande appartengono ai palestinesi".
Un altro tema ampiamente trattato sul sito è l'uso delle risorse naturali al di là della linea verde. Attualmente vi è una petizione che è stata presentata all'Alta Corte di Giustizia da Yesh Din contro 13 compagnie minerarie israeliane che, i firmatari sostengono, fanno uso di risorse naturali palestinesi. La più grande è la Hanson, controllata dalla corporation internazionale HeidelbergCement. Baum e Amir stanno facendo una ricerca per conto dei firmatari. "Secondo il diritto internazionale, le cave sono in un territorio che è ancora definito come occupato", dice Baum. "Secondo la Convenzione di Ginevra una potenza occupante non può sfruttare le risorse del territorio per le sue esigenze, ad eccezione di uno sfruttamento certo per i bisogni della popolazione sotto occupazione. In questo caso stiamo parlando del settore delle cave di ghiaia. Le risorse di materiali da costruzione nelle cave israeliane cominciano a scarseggiare e quindi gran parte del prodotto delle risorse dai territori occupati passa alla costruzione in Israele. È come un saccheggio".
Un altro progetto in cui Amir e Baum sono attualmente impegnate con la Coalizione delle Donne per la Pace e le organizzazioni americane ed europee di sinistra è un'aggressiva campagna internazionale contro la società Ahava, che produce prodotti cosmetici con i minerali del Mar Morto e il cui laboratorio si trova nell'insediamento di Mitzpe Shalem. Nel corso degli ultimi mesi l'Ahava ha dovuto affrontare attivisti coperti di fanghi davanti ai suoi punti vendita in Europa e negli Stati Uniti che informavano i potenziali clienti sull'occupazione. Recentemente il ministro degli Esteri olandese Maxime Verhagen ha ordinato un'inchiesta per verificare la provenienza dei prodotti dell'azienda (non c'è stata reazione da parte di Ahava).
"Vogliamo colpire l'immagine del marchio nel mondo", spiega Baum. "I manifestanti sono solo l'inizio, sono sicura che ci saranno ancora altre proteste attive in futuro".
Mitzpe Shalem è sulla riva del Mar Morto e l'opinione pubblica israeliana non lo percepisce come un insediamento controverso. Perché volete coinvolgere nel vostro progetto anche insediamenti che non sono percepiti inequivocabilmente come insediamenti? Non indebolisce la vostra lotta?
Amir: "Secondo la legge israeliana un insediamento in quella zona è considerato un insediamento. Tutto quello che sta a nord di Ein Gedi è al di fuori dei confini di Israele. Se l'opinione pubblica israeliana lo percepisce come un insediamento, o come territorio occupato o no non è la nostra preoccupazione. Noi non siamo politici o pubblicisti che cercano di vendere qualcosa e quindi non abbiamo bisogno di essere sensibili della percezione pubblica. Stiamo solo cercando di mostrare le cose come sono".
Fonte: Coteret