Il “paradosso dei diritti umani” nei territori palestinesi occupati, tra il rischio di strumentalizzazione e l’ossimoro “umanitario-militare”. Intervista a Nicola Perugini, co-autore del libro "The Human Right to Dominate" e ricercatore della Brown University di Providence. BDS? "È un movimento che sta crescendo perché ha obiettivi politici molto chiari: delegittimare il regime di dominazione e discriminazione israeliano ponendo fine alle complicità internazionali di governi, potentati economici e istituzioni culturali con il regime stesso"
di Duccio Facchini - 15 ottobre 2015
Uscito nel 2015 in inglese per Oxford University Press, “The human right to dominate” è il titolo del libro scritto dagli studiosi Nicola Perugini e Neve Gordon. Dal “diritto umano di uccidere” al “diritto umano di colonizzare”, il capitolo finale del testo è una domanda apparentemente retorica: “Che cosa resta dei diritti umani?”. Edizioni Nottetempo pubblicherà il volume nel nostro Paese nel 2016.
I diritti umani sono diventati uno strumento di dominazione? Nicola Perugini, assegnista del Postdottorato Mellon alla Brown University (Dipartimento di Studi sul Medio Oriente e Cogut Center for the Humanities) di Providence, negli Stati Uniti, e Neve Gordon, professore di Politiche e Governo alla Ben-Gurion University di Be’er Sheva, in Israele, hanno provato a rispondere a questa domanda attraverso il libro “Il diritto umano di dominare”, scritto per Oxford University Press nel 2015 e in uscita in Italia nel 2016 per l’editore Nottetempo. È un viaggio dentro al “paradosso dei diritti umani”, che guarda soprattutto a quanto accade nei territori palestinesi occupati.
Professor Perugini, può la violenza proteggere i diritti umani?
Vi sono forme di violenza che storicamente (si pensi ai contesti coloniali o alla lotta contro il regime di apartheid in Sudafrica) hanno contribuito alla liberazione da varie forme di dominazione e riaffermato i diritti umani. Ve ne sono altre che hanno prodotto o rafforzato forme di dominazione. Il nostro non è un punto di partenza purista. Però occorre saper distinguere. La repressione contro in migranti e le politiche razziste promosse dal Fronte Nazionale, ma anche dalle forze socialdemocratiche, in Francia (e altrove) nel nome della laicità e della protezione del sistema di diritto repubblicano sono una forma di liberazione dei migranti? L’invasione dell’Iraq, con le sue centinaia di migliaia di morti, o le guerre dei droni, o il paventato uso della forza militare italiana sulle coste libiche per impedire la partenza delle imbarcazioni su cui viaggiano i migranti mentre a quegli stessi migranti si impedisce di raggiungere l’Europa, sono una forma di liberazione? La repressione dell’omosessualità nel nome della protezione del diritto umano alla famiglia è una forma di liberazione?
Nel libro scrivete di una “lingua franca” comune. Che cosa intendete?
Nel corso dei decenni quello dei diritti umani è diventato un discorso che ha visto convergere progressivamente forze politiche contrapposte. Il discorso dei diritti umani offre autorità, credibilità e legittimità politica. Se ad esempio alcune organizzazioni internazionali e locali per i diritti umani e gli avvocati del dipartimento legale dell’esercito israeliano discutono i massacri di Gaza e l’occupazione militare della Palestina utilizzando una grammatica legale comune e facendo riferimento agli stessi principi etici e normativi, allora possiamo parlare di diritti umani -incluso il diritto umanitario internazionale- come lingua franca morale globale.
È una strumentalizzazione inedita?
La novità è che alcune forze conservatrici che negli ultimi decenni si erano opposte al discorso dei diritti umani ora non esitano ad appropriarsene e a creare nuove istituzioni e organizzazioni che pongono una sfida al tradizionale attivismo per i diritti umani.
Alcune ONG per i diritti umani recentemente create dai coloni israeliani in Palestina per difendere ‘i diritti umani dei coloni’ usano le stesse tecniche e strategie utilizzate dalle organizzazioni liberali che difendono i diritti umani dei palestinesi. Sia le prime sia le seconde presentano le loro petizioni nelle stesse corti israeliane che da decenni legalizzano la colonizzazione della Palestina. Cambiano solo i nomi degli accusati, ma le strutture e il linguaggio di queste petizioni sono di fatto identiche. In ultima istanza questo avvicinamento strategico e fisico (poi si ritrovano negli stessi tribunali) tra formazioni politiche contrapposte finisce per rafforzare invece che indebolire il regime di dominazione a cui sono sottoposti i palestinesi, inibendo la possibilità di tradurre il discorso dei diritti umani in una messa in discussione radicale delle forme contemporanee di dominazione. E la Palestina, uno dei centri mondiali dell’attivismo per i diritti umani, ne è un esempio lampante.
Il nesso “umanitario-militare” è un ossimoro?
No, è il presente in cui viviamo. Fa parte della lotta politica per la definizione del discorso egemonico dei diritti umani. Diverse organizzazioni per i diritti umani sono affascinate dal dialogo con gli eserciti e sono convinte che oggi i diritti umani non possono fare a meno della forza militare. Queste convergenze passano attraverso corsi universitari e programmi di formazione nelle organizzazioni internazionali per i diritti umani in cui si offrono sempre più forme di conoscenza al confine tra sapere militare e diritti umani, e viceversa per i programmi di formazione militare che sempre più includono curricula di diritti umani ad accompagnare l’educazione alla guerra. Il militare compassionevole, l’umanitarista che comprende le esigenze militari degli eserciti liberali, e l’accademia sempre più interessata a questi processi fanno parte della stessa ecologia politica.
Com’è cambiata la “cultura dei diritti umani” dal secondo dopoguerra ad oggi?
Già prima della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani il discorso dei diritti aveva funzionato come discorso di potere e di legittimazione del potere. Con l’emergere della cultura dei diritti umani c’è stata una grossa trasformazione politica globale e molti partiti politici tradizionali hanno perso supporto; supporto che è poi confluito nel mondo delle organizzazioni non-governative. Oggi troviamo forze reazionarie con programmi espliciti di dominazione costituirsi in ONG, come i gruppi che negli Stati Uniti difendono il diritto alle armi come diritto umano di auto-protezione, o le ONG di coloni israeliani. I coloni francesi in Algeria o i bianchi in Sudafrica non si costituivano in ONG.
Nel libro è affrontata anche la questione della “politicizzazione” dei diritti umani.
Dietro l’accusa di politicizzazione e di mancata neutralità si nasconde spesso il tentativo di impedire la messa in discussione radicale di regimi politici e pratiche di dominazione. Dunque un rapporto scritto da un’organizzazione internazionale per denunciare crimini contro l’umanità in un contesto come quello dell’assedio di Gaza risulta politicizzato e non neutrale a meno che ad esso non faccia seguito un rapporto che denunci i crimini contro l’umanità di chi vive sotto occupazione coloniale e sceglie di opporsi all’occupazione con le armi.
Ponete in evidenza i rischi di un approccio “legalitario” al dibattito sui diritti umani.
È ben noto che i tribunali o le commissioni legali di inchiesta non sono spazi neutrali di discussione del diritto. Giocare con le regole di un tribunale non è garanzia di giustizia. Così come attaccare Obama sui droni, come fa Human Rights Watch, chiedendo a Obama di attenersi al diritto internazionale non è garanzia di vittoria contro la guerra dei droni. In alcune situazioni drammatiche di dominazione -si pensi ai regimi giudiziari fascisti di ieri e di oggi, o ai regimi coloniali o all’apartheid- i tribunali di regime sono spazi che di per sé vanno smantellati se si ha a cuore un orizzonte di giustizia che cambi l’esistente invece di riformarlo.
A questo si aggiunge che una prospettiva legalista e specialista che affida a pochi professionisti dei diritti umani l’organizzazione delle lotte per i diritti umani ovviamente disinnesca a preclude la partecipazione popolare e democratica.
BDS, 10 anni dopo. Come leggere ora quell’esperienza?
Il movimento BDS contro Israele costituisce una radicalizzazione popolare e necessaria della lotta per i diritti umani in Palestina di fronte ai fallimenti degli ultimi decenni. Va ricordato che il movimento nasce nel 2005 da un documento di accordo e di strategia comune firmato dalle principali organizzazioni della società civile palestinese, e poi supportato da singoli e da organizzazioni internazionali ed israeliane. È un movimento che sta crescendo esponenzialmente perché ha obiettivi politici molto chiari: delegittimare il regime di dominazione e discriminazione israeliano ponendo fine alle complicità internazionali di governi, potentati economici e istituzioni culturali con il regime stesso; riconoscere il diritto alla piena uguaglianza degli abitanti palestinesi della Palestina; garantire a milioni di palestinesi cacciati da Israele, dal 1948 a oggi, il ritorno alle loro case e agli spazi da cui sono stati espulsi ed espulse. In passato le questioni di uguaglianza radicale si sono sempre sfumate ai tavoli delle trattative. Il BDS ristabilisce l’urgenza di tali questioni. Lascia libertà di azione a chi, in diverse parti del mondo, intende prendere l’iniziativa ed esercitare pressione nel rispetto dei principi e degli obiettivi politici del movimento.
E fa ancora più paura vista l’adesione al BDS di gruppi di ebrei ed ebree critiche, sia dentro sia fuori Israele, come successe con alcuni gruppi di bianchi in Sudafrica.
Vik è vivo
Il 15 aprile 2011, l’attivista per i diritti umani e scrittore Vittorio Arrigoni veniva ucciso a Gaza. Il suo ricordo è vivo, così come le sue convinzioni. La testimonianza della “vittoria” delle idee di Arrigoni è la Fondazione “Vittorio Arrigoni VIK UTOPIA ONLUS”, costituita nel maggio 2012 per “continuare la sua azione disinteressata di impegno civile a servizio del bene comune, dei diritti umani e della giustizia”. Egidia Beretta, la mamma di Vittorio, dà un aggiornamento delle attività della Fondazione: “Nel 2013 abbiamo partecipato al cofinanziamento di due progetti, uno che riguardava l’integrazione sociale e lo sviluppo delle abilità intellettuali dei minori affetti da Epidermolisi Bollosa (EB) nella Striscia di Gaza e l’altro realizzato attraverso l’associazione Sunshine4Palestine con lo scopo di costruire un impianto fotovoltaico che rendesse energeticamente indipendente per 24 ore al giorno il Jenin Charity Hospital di Gaza”. Obiettivo raggiunto nel corso del 2014, anno in cui la Fondazione ha cofinanziato due nuovi progetti. Il primo nella Repubblica Democratica del Congo, a favore dell’ Istituto superiore pedagogico di Nyakariba, scuola secondaria nel territorio di Masisi, provincia del Nord-Kivu, zona dove Arrigoni lavorò nel 2006 con “Beati i Costruttori di Pace”. Si tratta dell’installazione di serbatoi d’acqua e della costruzione di blocchi igienici. Il secondo a favore del progetto “Solidarscuola 2015 - Educazione alla Mondialità e alla Pace”, promosso dall’Associazione di Genova “Music for peace - Creativi della notte” onlus.
Fonte: Altreconomia