L'American studies association contro le università di Tel Aviv. «Violato il diritto all'istruzione palestinese».

di Ranieri Salvadorini

L'American studies association (Asa), un'associazione accademica che conta circa 5 mila iscritti, ha recentemente aderito alla campagna internazionale di boicottaggio contro l'accademia israeliana.

La forma di lotta non colpisce i rapporti tra singoli docenti ma è rivolta contro le istituzioni e rientra all'interno della campagna più ampia denominataBoicottaggio disinvestimento sanzioni (Bds) verso le politiche di apartheid e di colonizzazione del governo di Israele.

PRIMO STRAPPO USA-ISRAELE. Non a caso il New York Times ha parlato dell'iniziativa dell'Asa come di un «evento storico», mentre dall'università di Tel Aviv mandano a dire che è una sorta di «tradimento di famiglia», data l'amicizia che lega da sempre Israele agli Usa.

Le tesi che si fronteggiano sono essenzialmente due. Da un lato c'è chi sostiene che il boicottaggio sia una grave violazione della libertà accademica e una forma di discriminazione.

L'ASA: AMERICA COMPLICE DELLE INGIUSTIZIE. Dall'altra si dice che non ci può essere libertà senza la fine dell'occupazione dei Territori palestinesi. E che sostenere (o non denunciare) l'accademia israeliana: (dato il ruolo strategico che ha svolto e svolge) sia una forma di complicità con la violazione dei diritti operata dal governo di Tel Aviv.

Questa è la posizione dell'Asa, che ha elencato cinque ragioni a sostegno della propria posizione: il contesto di cooperazione nel quale gli Stati Uniti forniscono agli israeliani un sostegno militare e altre forme di supporto; la violazione di Israele del diritto internazionale e delle risoluzioni delle Nazioni Unite; l'impatto documentato che l'occupazione dei Territori ha su studiosi e studenti palestinesi; l'estensione con cui le istituzioni accademiche di Tel Aviv sono parte delle politiche governative che violano i diritti umani; e infine il fatto, di per sé significativo, che la maggior parte dei membri dell'Asa sia favevole al boicottaggio.

Lezioni interrotte da blitz dell'esercito

La novità, sottolineata persino dal New York Times, non è l'adesione di molte università europee ma il fatto che il dibattito stia accendendo i campus americani (all'Asa si è unita anche la Association for Asian American Studies).

Lo stesso rettore di Harvard è stato chiamato a esporsi, mentre intellettuali come Noam Chomsky o Judith Butler (che si è rifiutata di tenere lezioni in Israele e si è fatta promotrice della campagna) sono stati molto duri, così come lo scienziato Stephen Hawking. Insomma se ne parla. Eccetto che in Italia, dove gli accademici non si espongono.

NEL CUORE DELLO SCONTRO. Certo, non tutti. Nicola Perugini è il direttore del Programma di diritti umani e diritto internazionale della al Quds University, ad Abu-Dis, nei Territori Occupati.

In saggi, articoli e libri ha raccontato per anni quel che vede ogni giorno, anche sul blog Il Lavoro culturale. Nella testimonianza che qui anticipiamo, in uscita il 31 gennaio, Perugini ha raccontato una «giornata universitaria in Palestina». E cioè la recente irruzione, lo scorso 22 gennaio, dell'esercito israeliano all'università.

«Stavo discutendo in cortile con un mio studente la sua tesi di laurea quando abbiamo cominciato a lacrimare». Erano gas urticanti. «Ho avuto fastidi agli occhi e ai polmoni per tutta la sera, ma so di persone che hanno avuto seri problemi di soffocamento e irritazione al viso».

GAS E PALLOTTOLE DI GOMMA. Poco dopo i gas, le pallottole rivestite di gomma. «L'esercito ha bloccato ogni entrata e da lì hanno cominciato a lanciare i lacrimogeni. Poi, dopo alcune ore di scontro, c'è stata l'irruzione», ha continuato l'accademico.

Nel frattempo le persone, non potendo scendere per le scale per via del gas che saliva, si sono ferite nel tentativo di scappare dalle finestre rotte. «Nell'edificio in cui mi trovavo con alcuni tra colleghi studenti e personale del campus hanno fatto irruzione i soldati, incappucciati, e hanno preso uno studente, giovanissimo. Era accanto a me ma non abbiamo potuto far niente».

UNO SCHEMA SEMPRE UGUALE. Il motivo dell'assedio? «Un pretesto. L'esercito di occupazione si apposta spesso all'entrata del campus. I militari scendono dalle jeep, fermano gli studenti, puntano i fucili addosso, provocano. Stavolta la scintilla è stata una casa palestinese distrutta lì vicino».
La provocazione, la reazione, l'assedio: uno schema che si ripete. Alla faccia del diritto all'istruzione, che in Palestina, come mostra il video qui sotto, vale davvero poco.

Studenti palestinesi fermi ai check point per 4 ore al giorno

Per cercare di cambiare qualcosa, Perugini, assieme a Enrico Bartolomei e Carlo Tagliacozzo, ha curato Pianificare l'oppressione. Le complicità dell'accademia israeliana, un testo che raccoglie diversi studi palestinesi e israeliani, inclusi i rapporti di alte cariche internazionali e in cui elenca moltissime questioni ancora aperte.

PROFESSORI IN MIMETICA. Per fare qualche esempio, la maggior parte degli accademici di Israele svolge servizio militare. Questo si traduce in situazioni paradossali che li vede in mimetica a fermare i colleghi palestinesi e i loro studenti. ai check-point. E i posti di blocco, simbolo delle cosiddette "restrizioni di movimento", sono forse la più rappresentativa tra le pratiche quotidiane che violano i diritti dei palestinesi.

L'84% DEGLI UNIVERSITARI SMETTE DI SPOSTARSI. Secondo una stima, 9 mila studenti (circa il 57% della popolazione studentesca) li attraversano una o più volte al giorno. E secondo studi dell'Università di An-Najah il tempo d'attesa va dai 4 ai 90 minuti.

Per questo motivo, il 91% di questi ha perso lezioni, mentre l'84% ha smesso di spostarsi o ha evitato di viaggiare del tutto.

Praticamente tutti - chiude lo studio - provano sentimenti di rabbia e nervosismo ai posti di blocco. E chi, per far prima, prova ad aggirarli, rischia di essere catturato. E quindi di subire percosse e vessazioni, come riferiscono spesso gli studenti.

Le università israeliane in prima linea per la progettazione di armi

All'accademia israeliana vengono imputate complicità concrete e dirette, come la collaborazione attiva con l'esercito.

Tristemente famoso è l'esempio della costruzione, da parte di una prestigiosa università Technion, del carro armato teleguidato "D9" per distruggere le case dei palestinesi.

Anche l'Ateneo di Bar Ilan, con i suoi studi sull'intelligenza artificiale, ha contribuito a creare i veicoli senza pilota, e gli esempi sono molti.

SEDI ACCADEMICHE NEI TERRITORI OCCUPATI. Altre connivenze sono meno note: l'Università Ebraica, per esempio, si trova su territori espropriati illegalmente dopo la guerra del 1967, mentre quella di Bar-Ilan ha creato una succursale in un insediamento israeliano illegale nella Cisgiordania. La lista, anche qui, è lunga e secondo Uri Yacobi Keller, dell'Alternative Information Center, questo significa che «hanno fatto un passo in più e sono diventate direttamente coinvolte con l'occupazione israeliana».

Nessun ateneo ha mai denunciato pubblicamente l'occupazione e una vecchia stima di Ilan Pappé (israeliano, duramente attaccato per il suo dissenso) dà la misura di quanto sia compatta l'istituzione: su 9 mila accademici, in Israele, solo 100-150 esprimono attivamente la propria opposizione.

«E fatta eccezione per una piccola ma decisiva minoranza», scrivono Riham Barghouti e Helen Murray, dell'Università palestinese di Birzeit, «gli accademici israeliani sono ampiamente di sostegno all'oppressione esercitata dal proprio Stato, o tacciono su di essa in modo acquiescente».

L'ITALIA TACE E NON AFFRONTA L'ARGOMENTO. Colpisce, a fronte di un dibattito internazionale molto vivo, il sostanziale silenzio dell'accademia italiana.

Angelo Stefanini, direttore del Centro di salute internazionale dell'Università di Bologna e per anni consulente dell'Oms e del governo italiano per la Palestina, sostiene che la ragione è semplice: «Siamo intimiditi da una sorta di "ricatto morale", chi si oppone alle politiche di governo sioniste rischia di essere tacciato di antisemitismo: a me capita spesso, sia quando racconto le difficoltà che incontro a Gaza, per dire, sia quando invito i colleghi a non collaborare con le università israeliane».

Una paura che colpisce anche la stampa, va avanti Stefanini, che non racconta cosa accade laggiù o lo fa in modo distorto. E chiude: «Prendere posizione comporta un rischio, e un prezzo, con cui la maggioranza di noi non ha il coraggio di fare i conti».

Fonte: Lettera 43