Il Presidente della Federazione Calcio palestinese, Jibril al-Rajoub, ha chiesto a Blatter di sospendere Israele dalla FIFA e di bandirla dalle competizioni internazionali e dalla Coppa del Mondo. Nella prima settimana di ottobre si svolgeranno i campionati di calcio Under 21 della WAFF (Federazione Asia dell’Ovest – ndr) inCisgiordania, ma c’è incertezza sul comportamento delle autorità israeliane di occupazione: già ad agosto venne impedito, alle squadre che partecipavano ai campionati regionali di calcio Under 17, di raggiungere i Territori palestinesi occupati. Oggi, diversi paesi arabi si rifiutano di giocare in Palestina, per timore che Israele possa decidere chi far entrare oppure no.

Tra i tanti tentativi diplomatici, per una soluzione del conflitto israeliano-palestinese, c’è quello ‘originale’ del calcio: la FIFA vorrebbe facilitare la mobilità di calciatori, arbitri ed attrezzature in uscita e in entrata in Palestina, per migliorare la situazione del calcio nella regione. Ma è solo retorica per la ‘Pace’ o c’è qualcosa di concreto? Si può ‘normalizzare’ lo sport in un Paese sotto occupazione militare? Ne discutiamo con un’attivista del BDS (Movimento pacifico per il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni verso Israele, costituito da associazioni e gruppi di tutto il mondo, che hanno aderito alla richiesta di aiuto della società civile palestinese – ndr). Ometteremo il suo nome per consentirle il ritorno in Palestina: ci si arriva esclusivamente passando controlli israeliani, assolutamente non benevoli con gli attivisti.

C’è da dubitare della ‘saldatura’ tra diplomazia israeliana e responsabili mondiali dello sport, in particolare del calcio?

“Non so se ci sia una saldatura tra politica israeliana e responsabili mondiali dello sport. Quello che temo, dal mio piccolo osservatorio di attivista per i diritti umani dei Palestinesi, è che si cerchi di diffondere un’idea di pacificazione attraverso il calcio (Il riferimento è alla partita della Pace proposta da Israele alla squadra del Barcellona, da giocare ad agosto scorso contro 11 giocatori israeliani e palestinesi in Terra Santa, ma che la Palestina ha rifiutato di organizzare per non consentire a una partita di calcio di passare sopra 45 anni di occupazione israeliana illegale – ndr) del tutto priva di contenuti reali, e quindi che si ‘spuntino’ in questo modo le armi della critica all’inaccettabilità generale della situazione. Anche attraverso l’evidenza delle limitazioni subite nello sport più amato, il calcio, può finalmente diventare più comprensibile a tutti quanto sia assurda ed opprimente l’occupazione israeliana, con il suo illegale corollario della colonizzazione.”

Nel merito?

“Fingere che sia possibile una sorta di ‘corridoio del calcio’ invece di  un corridoio umanitario, lasciando invariati la mancanza di libertà di movimento dei ragazzi e degli adulti, anche se non vanno a giocare una partita di calcio di un campionato internazionale, senza garantire loro sicurezza e lasciandoli invece in una situazione di permanentemente rischio sequestro. Questo è inaccettabile sul piano morale (I calciatori dovrebbero godere di una sorta d’immunità che non è stata riconosciuta nemmeno ai parlamentari. Sono infatti 13 i membri del Consiglio Legislativo Palestinese detenuti in prigioni israeliane – ndr) e poco credibile sul piano dell’efficacia: quale calcio di base (I giovani – ndr) alimenterebbe le squadre in cui dovrebbero convergere le eccellenze? Gli stessi calciatori sarebbero garantiti anche nelle trasferte interne e negli allenamenti ordinari o solo per gli spostamenti di rilievo internazionale? A tal proposito la vicenda del calciatore Mahmoud Sarsak è esemplare: Il calciatore della nazionale palestinese, abitante a Gaza, nonostante fosse in possesso della documentazione necessaria dell’Associazione Palestina Calcio, fu sequestrato mentre cercava di raggiungere la sua nuova squadra, quella che avrebbe dovuto permettergli di continuare a giocare (Lo sport a Gaza è stato reso impossibile dai bombardamenti israeliani – ndr).”

Israele non si è ancora uniformato allo statuto FIFA, questo non è un problema?

“Sì, è a questa scarsa attendibilità che si riferisce Jibril al-Rajoub (Presidente della Federazione Calcio palestinese – ndr) quando ritiene che Israele dovrebbe permettere la libertà di movimento dei calciatori palestinesi. Ma sulla possibilità effettiva di procedere su questa via, quante risorse umane, tecnologiche e di tempo dovrebbero essere impiegate per garantire efficienza certa, non ipotetica, ai movimenti delle squadre? E’ credibile che ciò accada quando sistematicamente posti di blocco israeliani, che hanno orari definiti di apertura per il passaggio dei Palestinesi, sono gestiti con un’arbitrarietà che rende impossibile ogni previsione sulle possibilità effettive di attraversamento? E poi, se per qualche squadra di livello internazionale si rinunciasse a sottolineare la precarietà della vita in Cisgiordania, sarebbe giusto che questa eccezionale ed esclusiva possibilità di programmare servisse a nascondere l’impossibilità di farlo nella vita quotidiana per milioni di Palestinesi?”

Dunque quali sono gli obbiettivi politici nascosti dietro il paravento della diffusione del calcio in  Medio Oriente, e nel resto del mondo?

“Non lo so, ma sarebbe interessante studiare alcuni testi di sociologia relativi al calcio. Certo, negli ultimi anni il tifo calcistico è l’unica realtà che mobilita grandi masse. Lo sport può essere mero strumento di distrazione dalle problematiche condizioni di vita, sempre più drammatiche per tanti, anche in Italia, ma potrebbe diventare un veicolo di crescita democratica e di consapevolezza sociale, ed è quello che sostengono le realtà del calcio popolare, sempre più diffuse in tutta Italia, con le loro analisi e condanne del calcio assoggettato ai grandi interessi economici di mercato, dove gli stessi calciatori sono ridotti a operari dai salari d’oro, ma soggetti ad uno sfruttamento che sembra poco rispettoso delle loro esigenze di persone e, talvolta, delle indicazioni del concetto di salute proposto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. In particolare le squadre giovanili amatoriali, che pure si sottopongono a regimi di allenamento serrati, insistono sul piacere del gioco, che per loro è il movente principale, e sul valore della solidarietà. Da noi il calcio è una grandissima ‘impresa’ economica che muove miliardi, ed è organizzata secondo rigorosi criteri capitalistici.  Sono talmente alti gli interessi in gioco, che i suoi numeri stridono con quelli delle attività di tutela sociale, e a volte possono tirarsi dietro i costi quotidiani a cui la gente comune è costretta a far fronte tra mille difficoltà: ricordate le proteste di massa in Brasile, contro l’aumento dei biglietti dei mezzi pubblici per finanziale infrastrutture per i prossimi Mondiali? La Palestina a tal proposito potrebbe costituire un’occasione per riflettere sulla necessaria ‘moralizzazione’ del calcio.”

Il principio base dello sport è l’uguaglianza: tutti partecipano con le stesse regole, con le stesse condizioni e dagli stessi punti di partenza. Per la Palestina è così?

“In Palestina, quella storica (Gaza, Cisgiordania ed Israele – ndr), le condizioni di partenza sono tutt’altro che uguali o equivalenti. A cominciare dalla libertà di circolazione, a finire alla disponibilità di strutture sportive agibili. Ma soprattutto sono le condizioni di base della vita quotidiana, quelle che nutrono la nostra sicurezza e la nostra autostima ad essere decisamente impari tra i gruppi di popolazione della Palestina. Sono aspetti materiali e immateriali quelli che rendono profondamente disuguali i Palestinesi, anche quelli che vivono nei territori del 1948 e sono cittadini d’Israele, dai cittadini ebrei d’Israele. Gaza è in condizioni, dichiarate dall’ONU, ai limiti della vivibilità: il rapporto ONU prevedeva che nel 2020 la Striscia sarebbe diventata del tutto inabitabile, innanzitutto per l’inquinamento delle acque ‘dolci’ rese salmastre dalle trivellazioni dei pozzi dei coloni prima dei 2005, e di quelle del mare che ne bagna la costa, dove il divieto israeliano d’importazione dei materiali edili, necessari per ripristinare le fogne bombardate, si somma all’inquinamento del terreno avvelenato da metalli pesanti e sostanze nocive, anche per gli aspetti riproduttivi, dai bombardamenti israeliani. Con queste premesse, faccio io la domanda a voi: c’è parità nelle condizioni di partenza per gli sportivi israeliani e per quelli Palestinesi? Un confronto agonistico risponderebbe ai valori sportivi?”

Non tutti quelli che seguono il calcio sono a conoscenza di questi avvenimenti. Cosa potrebbero pensare guardando il Barcellona giocare una partita della Pace in Israele?

“La questione non è dove: potrebbe essere in Spagna, non cambierebbe la scorrettezza dell’operazione. Fare parti uguali tra diversi, è uguale a mettersi dalla parte di chi sta meglio, di chi ha di più ed è dominante. E’ così tra classi e ceti sociali in uno stesso paese, è così sul piano internazionale tra Stati, se poi uno Stato occupa militarmente il territorio di un altro popolo, lo squilibrio è talmente schiacciante che dovrebbe risultare evidente a tutti. Il Barcellona, prima di giocare partite della Pace, dovrebbe aiutare a creare le condizioni della Pace. Non c’è Pace senza giustizia. Non è uno slogan, è una constatazione che chiunque osservasse senza pregiudizi la storia recente dei numerosi conflitti nel mondo potrebbe fare.”

Dunque quello della partita della Pace è stato un messaggio fuorviante?

“Già parecchi anni fa, nella psicologia della comunicazione, si è rilevato e sancito che le reazioni ai messaggi sono ben diverse se questi messaggi propongono risposte, affermazioni, certezze o se porgono dubbi, negazioni, incertezze. Le prime tre godono dell’accettazione generale. Le seconde tre, quelle negative, sono generalmente rifiutate. Rare sono le persone che si pongono in atteggiamento critico, e queste ovviamente non si spaventano di fronte ai dubbi, quindi è facile capire che costruttori di immagine si avvalgano di messaggi positivi: “Pace” rassicura, anche se è una mistificazione. Lo abbiamo visto assistendo alle aberranti deformazioni nell’uso delle parole in relazione delle guerre mosse dai paesi NATO negli ultimi decenni. Si è creato l’ossimoro della “guerra umanitaria” proprio in omaggio a queste considerazioni. A volte la parola “guerra” è stata anche eliminata con l’espressione “polizia internazionale”, ma sempre per gli stessi motivi: abbattere le difese di rifiuto verso ciò che si stava propagandando. Allo stesso modo, una squadra che faccia un’azione “di Pace” ne riceve un grande ritorno d’immagine, a prescindere dal fatto che la sua sia davvero stata un’azione a vantaggio del più fragile o che l’abbia reso ancora più debole.”

Debole, attraverso il calcio?

“Sì, indebolito perché gli ha sottratto la possibilità che si mostri ciò che subisce: lo zittisce e lo mostra a tutti come ‘pari’ dell’altro, quello che l’opprime. E’ una sottrazione di realtà tra le più violente che conosca. Una squadra come il Barcellona, sensibile alla questione, avrebbe dovuto chiedere la fine dell’occupazione, e finché non fosse avvenuta, si sarebbe dovuto rifiutare di aiutare a mettere in scena la finzione della normalità e di praticare lo sport con Israele, sia in quel Paese che con le sue squadre.”

Fonte: MediaXpress