Secondo il tecnico del Beitar di Gerusalemme, Guy Levy, l’ingaggio di giocatori “arabi aumenterebbe le tensioni con i sostenitori della squadra e creerebbe danni”.

di Roberto Prinzi

Al Beitar di Gerusalemme i palestinesi proprio non piacciono. L’ultimo capitolo della crociata anti-araba del celebre club calcistico israeliano ha avuto per protagonista l’allenatore Guy Levy. Intervistato martedì dalla radio 102FM, Levy ha detto che non permetterebbe l’acquisto di un calciatore “arabo” (ovvero di un palestinese cittadino d’Israele, ndr) perché “aumenterebbe le tensioni” con i fan della squadra. “Non penso che sia arrivato il momento giusto [per farlo], creerebbe solo danni – ha dichiarato – anche se ci dovesse essere un giocatore [palestinese] adatto professionalmente, non lo prenderei per evitare inutili tensioni”.

Come se non bastasse, l’ex calciatore e in passato commissario tecnico dell’Under 21 israeliana ha poi lodato uno degli storici gruppi ultras del club, La Familia: “Li ho incontrati di recente, persone eccellenti, tifosi straordinari. Rispetto la gente che sostiene il mio team”. Forse Levy dimentica che sei di loro sono stati coinvolti la scorsa estate nel rapimento e uccisione del giovane palestinese di Gerusalemme est, Mohammed Abu Khdeir. Furono sempre sostenitori gialloneri (non solo quelli de La Familia) ad assaltare nel 2012 il centro commerciale di Malha e, al grido di “morte agli arabi”, ad aggredire i lavoratori palestinesi. E furono sempre loro ad andare su tutte le furie nel 2013 quando il club “osò” acquistare due giocatori musulmani, Zaur Sadayev and Dzhabrail Kadiyev. Non “arabi”, ma ceceni.

L’allora allenatore Eli Cohen, nel tentativo di stemperare gli animi dei tifosi della sua squadra, arrivò addirittura ad affermare che “tra un musulmano europeo e un arabo musulmano ci sono delle differenze”. La federazione calcio israeliana (Fci) condannò gli ultras gialloneri, adottò qualche misura cosmetica per placare l’ondata mediatica di sdegno, ma alla fine non fece nulla di concreto per punire il razzismo degli ultras. Né tantomeno ha mai seriamente attaccato il club che continua a vantarsi di non aver mai tesserato calciatori palestinesi.

Il Beitar, che ha nel suo palmares sei campionati nazionali, 7 coppe di lega e due supercoppe, è storicamente legato all’estrema destra revisionista israeliana. I tifosi sono tristemente noti alle cronache per il loro accesso odio contro i musulmani e i palestinesi, ma nel loro mirino vi è anche l'”ebreo traditore” Yitzhak Rabin che, due anni prima di essere assassinato dall’estremista israeliano Yigal Amir (omaggiato dalle tribune del Teddy), “aveva svenduto la terra d’Israele al terrorista Arafat” con gli accordi di Oslo. Ecco perché il minuto di silenzio, celebrato su tutti i campi d’Israele a novembre in ricordo del tragico assassinio del primo ministro, è accompagnato da bordate di fischi dai tifosi gialloneri.

Le dichiarazioni di Levy hanno destato l’immediata indignazione della stampa locale che ha accusato il mister di razzismo. Ma ha forse torto il tecnico quando dice che non può cambiare la cultura dei suoi fan e che spetterebbe al “ministro dell’istruzione cambiare la cultura di un popolo” e non ad un tecnico di calcio? Inconsapevolmente Levy pone una riflessione: in un paese in cui l'”arabo” è presentato come “nemico”, “minaccia incombente”, “pericolo demografico” ed è de facto cittadino di serie B (perché non ebreo), sono anti-arabi e razzisti solo le mele marcie (gli ultras di una squadra di calcio o un tecnico)? O, piuttosto, è l’intera società israeliana nel suo complesso ad esserlo? Il calcio, suggerisce Levy, può davvero cambiare qualcosa quando l’odio verso il diverso nasce all’interno delle istituzioni statali, sul posto di lavoro e tra i banchi di scuola e di università?

Incalzato dai giornalisti indignati, l’allenatore ha provato a difendersi: “Presentarmi come razzista è ridicolo. Ho detto di non aver alcun problema con la razza o la nazionalità”. Ma la sua parziale retromarcia non è bastata, né ha convinto il presidente della federcalcio locale, Ofer Eini che ha infatti definito le parole del tecnico “inappropriate” e “dal sapore razzista che certamente non contribuiscono al calcio israeliano né alla società israeliana”. “Come allenatore ed educatore – ha aggiunto – sarebbe meglio evitare commenti che possono essere strumentalizzati da chi mira a dividere la società israeliana”.

Una condanna dunque inequivocabile che non cambierà però la sostanza dei fatti, né rasserenerà il clima di un calcio, quello israeliano, che porta sul rettangolo verde e in tribuna ogni fine settimana i rancori e gli odi razziali quotidiani presenti nel Paese. A preoccupare Eini non è tanto il concetto espresso da Levy, ma le eventuali ripercussioni che queste parole clamorosi potrebbero avere nelle sedi istituzionali del calcio europeo ed internazionale (Uefa e Fifa) che da tempo, su richiesta palestinese, monitorano il calcio israeliano.

Le pressioni su Tel Aviv sono aumentate lo scorso dicembre quando alcuni militari dello stato ebraico hanno fatto irruzione nella sede della federcalcio palestinese. Il raid mandò su tutte le furie il presidente della lega calcio di Palestina, Jibril Rajoub, che promise di “mostrare il cartellino rosso” ad Israele: la richiesta di estromissione degli israeliani dalle competizioni calcistiche europee e internazionali. Promessa ribadita pochi giorni fa al capo della Fifa Joseph Blatter.

Finora Uefa e Fifa non meditano provvedimenti punitivi contro la Fci, nonostante si dichiarino “preoccupati” per le ostruzioni e le difficoltà che il calcio palestinese deve subire a causa delle restrizioni imposte da Israele. Anzi, hanno persino premiato lo stato ebraico con l’assegnazione dell’Europeo Under 21 nel 2013. Due anni fa sui cartelloni pubblicitari dei campi da gioco israeliani campeggiava il celebre logo della Uefa: “Respect”. Chissà, nel leggerlo, cosa avranno pensato a Gaza e a Ramallah.

Fonte: Nena News